Non è troppo tardi
Un giorno come molti, un sabato di gennaio. Al pari di ogni giorno, tanta gente in fila davanti alla mensa della Caritas. C’è un’umanità quanto mai composita, che ordinatamente si mette in attesa di un pasto. Non solo homeless, cittadini stranieri, ma tanta gente comune che, specie negli ultimi tempi, si è trovata in ristrettezze tali da non potersi garantire un pasto quotidiano. Un giro fra quella gente farebbe meglio riflettere tanti benpensanti e rigoristi della domenica. Un anziano signore sembra incline al dialogo mentre aspetta il suo turno. Dopo il covid non è più possibile consumare il pasto al caldo all’interno della mensa. Solitamente si mette su una panchina fronte Chiesa per cibarsi o dormire, con qualsiasi condizione meteorologica. Quel giorno c’era la pizza; non è sembrato molto contento, la mancanza di denti gli avrebbe reso tutto più difficile. Decidiamo di avvicinarci per chiedergli come stesse. “Bene”, risponde e ci invita a sederci. Accettiamo. Ci racconta della sua vita, di ciò che era e di come oggi si ritrovi in quella condizione. Aveva una famiglia, dei figli che non vede da anni. Senza indugio ci racconta di alcune difficoltà che hanno reso le entrate sempre più esili, fino alla perdita del posto di lavoro. Lavorava come guardiano notturno in una grossa ditta. L’adozione del sistema di automazione e il controllo da remoto con telecamere aveva determinato una drastica riduzione de personale. Ritrovarsi senza lavoro a 50 anni non è una condizione felice. Il reinserimento particolarmente arduo. Lentamente, l’alcool è divenuto lo strumento per fuggire dai problemi, isolandosi sempre più, mentre il resto della famiglia lo vedeva via via sprofondare nel baratro. Da quella condizione all’isolamento totale il passo non è stato lungo. Oggi, con circa dieci anni di più, ne dimostra circa ottanta, edentulo e con il peso gravoso di una condizione logorante. Gli chiediamo in che modo possiamo essergli utile; abbozza un sorriso e ci dice di stare bene, ha tutto ciò di cui ha bisogno per sopravvivere, il resto è superfluo. L’unica cosa che gli manca sono i nipoti, vorrebbe conoscerli, passare del tempo con loro. Non ha rabbia né risentimento. Quella condizione cronica gli aveva tolto tutto, al punto da svuotarlo totalmente, rendendolo apatico e distaccato. Ci chiediamo come sarebbe oggi la sua vita se avesse preservato il lavoro, se si fosse ritrovato in una diversa condizione o in un altro luogo con dei supporti e sussidi ma è un puro esercizio mentale. La vita, spesso, va a capo senza avvertire.
Tuttavia, la condizione di quell’uomo non è un caso isolato ma un baratro nel quale scivolare non è affatto difficile. Se, una volta caduti, non ci fosse nessuno che tendesse una mano, sprofondare sarebbe inevitabile. Il resto della famiglia, fedele giustamente alla legge del “si salvi chi può”, prenderebbe inesorabilmente strade diverse. Non è un caso che i Paesi nei quali il divario sociale è più marcato sono quelli con un welfare più debole. Uno Stato che non è in grado di recuperare chi rimane indietro e lo lascia sprofondare, viene meno a uno dei suoi doveri principali, ossia quello di garantire gli strumenti di sopravvivenza e di un vivere dignitoso a chiunque. Chi ha fondato il nostro attuale assetto civile si era preoccupato di garantire, sulla carta, pari diritti a chiunque, prevedendo strumenti di supporto e assistenza. Strumenti che, via via, sono stati progressivamente assottigliati da una forbice che, acriticamente, si è preoccupata di tagliare in nome di un rigore imposto da una condizione economica frutto di sperperi e gestione allegra. Chi è più debole non ha voce e peso, per cui risulta più facile da sacrificare. Tuttavia, oggi, con una mole ingente di denaro pubblico che arriva dall’Europa, bisognerà, per forza, che una delle vie di effluvio di questi soldi vada nella direzione di un potenziamento degli strumenti di assistenza per chi rimane indietro. La giustizia sociale è condizione indispensabile per un mondo equilibrato e in pace.
Massimo Conocchia