Una volta il Porco era un Angelo e ora?

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Un tempo, a fine dicembre, in gennaio e febbraio Acri, dalle prime ore del mattino era inondata dalle grida strazianti dei porci, che venivano uccisi in grandissimo numero.

Ogni famiglia ne cresceva uno. Nelle periferie, negli orti vicino casa, si vedevano i tanti porcili, detti zimmùni. Le donne allevavano quei preziosi animali con ogni cura. Si trattava dei cosiddetti neri, perché coperti di setole nere e che erano un incrocio con i cinghiali. Questo li rendeva resistenti ai climi rigidi di un tempo.

Il porco era preziosissimo, tanto da far dire a un monaco, come riporta il nostro Padula: – Se il porco avesse l’ali sarebbe come l’Arcangelo Gabriele! -. Lo era, perché costituiva la ricchezza, in più sensi, per la famiglia, ma, soprattutto ne assicurava la sussistenza per l’intera lunga invernata.

Le donne, nel discutere dei loro preziosi animali, dicevano che era ‘nu carusìellu (un salvadanaio), che era ‘na ricchizza (una ricchezza), ecc.

Se il porco si ammalava era una vera disgrazia. Per scongiurare tanta calamità si faceva voto a S. Antonio, che si riteneva padrone dei porci, per falsa interpretazione della iconografia sacra. Il porco posto a lato del Santo, infatti, si riferiva ai peccati umani, ma i monaci, diceva qualcuno, ne avevano profittato e l’avevano fatto credere protettore dei chirilli, come li chiamava il popolo, ignorando che quella denominazione era di origine greca.

Quante famiglie non ricevevano dal frate cercatore la pignatèlla (pignattina) per riempirla di grasso per il convento. Quante, per preservare il prezioso animale da calamità non facevano voto di portare al convento il crùozzu (la testa) o il menzu crùozzu (mezza testa), a miracolo ricevuto dal Santo.

Nelle preghiere le donne non dimenticavano di far stare bene ‘ a frisinghella, ‘u purcìellu, ìu ripassu!

Quelle grida disperate della mattanza erano accolte con gioia, anche perché si mangiava un po’ di carne fresca, e poco importava se si decretava la fine del povero animale. Mors tua vita mea! (Morte tua vita mia!), dicevano i Latini. E, il macellaio, che va paragonato al sacerdote romano, che sacrificava il maiale alla dea Maia, perciò si dice maiale, augurava, al padrone, nell’affondare il coltello nella gola del misero: – ‘A mort’ ‘e du pùorcu, ‘a sadut’ ‘e du patrùnu! (La morte del porco la salute del padrone!) -. Ricordo che a un ometto semplice si augurava, in tutta fretta: ‘A sadut’ ‘e du pùorcu ‘a mort’ ‘e du patrunu (La salute del porco sia la morte del padrone!) e quello, nella confusione riteneva d’aver sentito la prima versione e ringraziava, come si era soliti fare.

L’allevatrice accorreva col recipiente, per raccogliere il sangue, che fiottava dalla mortale ferita. Lo ruotava, a evitarne la coagulazione immediata. Ne avrebbe fatto il sanguinaccio, secondo una ricetta tradizionale, che era un dolce ambito. Coagulato ne preparava una pietanza soffritta.

Del porco, si commentava, non si getta nulla “si gettano solo le ossa”.

Si potrebbe continuare a lungo, ma chi leggerebbe le tante “preziosità” in un’epoca in cui si ha fretta? Allora chiudiamo col sonetto che Giulio Cesare Croce premette al suo “L’eccellenza et il trionfo del porco”, opera pubblicata in Ferrara, nel 1594:

   Voi, che lodate tanto il nobil Asino,

mirate un poco hor l’eccellente Porco,

e se dapoi non celebrate il Porco,

dite, che un Porco sono, ch’io son un Asino.

   Di pregi à punto è come Luna l’Asino,

ed è qual risplendente Sole il Porco,

quindi à ragion, chi non gradisce il Porco

da tutti reputato sia qual’Asino.

   E s’ha ben tante preminenze il Porco,

Non però dico, che biasmato l’Asino,

che l’Asino è l’Argento, e l’oro è ‘l Porco.

   Ma mentre parlo qui di Porco, e d’Asino,

non però lodo quello, ch’è del Porco

ne l’attion sue, né men quel, c’ha de l’Asino.

Se il porco avesse l’ali… Era proprio vero allora. E ora? Fate voi…

Giuseppe Abbruzzo

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