“Briganti”, delinquenti, sequestri, e…
Pietro Bianchi è un brigante “caro” al Padula. Gli studiosi di quest’ultimo lo citano, ma, al solito, nessuno ne ricerca o ne dice almeno quanto basta. Anche per dare la possibilità ai “ricercatori dal copia incolla facile”, riteniamo interessante riportare una notizia di prima mano.
La seduta del 21 giugno 1867, della Corte d’Assise di Catanzaro, fu aperta sul sequestro ed estorsione a danno di Salvatore Celi e Vitaliano Corrado di Catanzaro.
Imputati: Pietro Bianchi, Odoardo Trapasso, Angelantonio Greco, De Fazio e Chiarella.
Celi narra che, nel maggio 1866, col Corrado andò, con alcuni, nel fondo S. Domenica, poco distante da Catanzaro, dove furono aggrediti e sequestrati “da un’orda di briganti”, tra i quali vi erano i suddetti.
“Fummo condotti alla Sila”. Trattenuti “molti giorni in una grotta, e non fui liberato che dopo il pagamento di duc. 5.000 inclusi orologi, lacci di oro, bottoni, anelli ed altri oggetti”. Precisa, inoltre: “I briganti mi teneano celato quello che ricevevano dalla famiglia: era questa la loro tattica. Io seppi tutto dopo rientrato in casa”.
Il Presidente chiede se avesse avuto maltrattamenti durante il sequestro.
Celi mostra l’orecchio reciso, dicendo: “Ecco!”.
Va detto che questi era circa settantenne e debole di salute. Il Presidente chiede il perché dello sfregio e l’autore: “Mel recisero – risponde Celi – per mandarlo alla mia famiglia ed estorquere una somma maggiore. L’autore di questa recisione fu De Fazio alla presenza di Luigi Tarantino”.
Corrado fa lo stesso racconto del precedente e dice che ha dovuto pagare 12.000 ducati, compresi preziosi. Precisa: “Mi recisero il padiglione dell’orecchio – mi minacciarono di vita – mi bastonarono, ed una volta, se non si fosse interposto Odoardo Trapasso, io sarei stato ucciso da Bianchi”. L’ordine della recisione dell’orecchio era stato dato da quest’ultimo, che rintuzza: “Sig. Presidente, questi è mio nemico”.
“Non posso esservi amico dopo tutto quello che mi avete fatto”, ribatte Corrado, che continua: “Alla mia famiglia fu mandato chiuso in una lettera non il padiglione dell’orecchio a me reciso, ma un orecchio intero reciso a un cadavere”.
Autore dell’omicidio, con atti di brutalità, era stato Angelantonio Ajello. Richiesto, precisa Corrado che: “I briganti dissero che Bianchi aveva sospetti che Ajello avea tentato di sedurre la sua druda”.
Il testimone Filomeno Corea depone di aver portato i 12.000 ducati e conobbe “Bianchi, Tarantino, de Fazio e Chiarella”. Cosa confermata dal teste Canistrà.
Bianchi, del quale scrive il Padula su “Il Bruzio” era quello surriportato e non autore della lettera inventata da don Vincenzo.
Cogliamo l’occasione per evidenziare le brutalità d’un altro sequestro discusso nella stessa seduta. Vittima Francesco Marasco (assente). Questi mentre si trovava “in una sua casina” fu “aggredito da 12 briganti, che insidiosamente si annunziarono per Carabinieri”. Sequestrato, fu trattenuto per giorni in Sila. Pagato il riscatto di 6.000 ducati, riuscì a fuggire.
Il testimone Serafino Colosimo così depone: “In una notte mentre stava tranquillo in casa mia sento picchiare l’uscio, ed una voce che chiedeva ricovero e soccorso – Ho aperto e trovai un galantuomo sfinito dalla stanchezza e dagli stenti, che mi disse di essere fuggito dai briganti, ed a mani giunte mi pregava di ricoverarlo: era il nominato Francesco Marasco”. Era stato sequestrato dalla comitiva comandata da Catarina. Lo ospitò e il giorno dopo partì.
Questi sono veri fenomeni delinquenziali, che nulla hanno a che vedere con gli altri “briganti”, persone dabbene che rivendicavano le terre del demanio pubblico usurpate da ladri, quelli sì, senza scrupoli, che vissero felici e contenti. Né hanno a che vedere con i renitenti alla leva, che, dopo l’Unità, durava dai sette agli otto anni, come pretendevano i nuovi arrivati, senza preoccuparsi del chi avrebbe dovuto procurar da vivere alle loro famiglie.
Questo, però, è un altro “discorso”. Noi abbiamo voluto documentare solo di quell’efferato Bianchi e sulle nefandezze commesse ai danni di miseri sequestrati da lui e da altri della stessa risma.
Giuseppe Abbruzzo