Handicap e diversità in tempi lontani
Il concetto di handicap e di diversità hanno subito una lunga evoluzione, non solo da un punto di vista scientifico ma soprattutto nell’accezione generale e nel modo di approcciarsi della gente. Il problema è stato, di volta in volta, alle nostre latitudini, affrontato in maniera differente. A un iniziale imbarazzo delle famiglie, che tendevano ad affrontare la disabilità se non con pudore, sicuramente con imbarazzo, si associava un atteggiamento ostile o ipocritamente compassionevole della gente. Non infrequentemente, la famiglia era portata a nascondere il “problema”, sia per proteggerlo da un mondo che spesso, con la smaliziata cattiveria dei più piccoli, tendeva a schernirlo, sia per evitare situazioni imbarazzanti. Il problema era, anzitutto, culturale e c’è voluto un lungo percorso per addivenire a una visione comune e condivisa, che, senza retorica, senza fingere che tutto fosse bello e semplice, affrontasse il tema della disabilità non come privazione di alcune funzioni come “diversa abilità”. Chi ha la nostra età ricorderà senz’altro con quanto cinismo o, nei casi migliori, ipocrita compassione venivano trattati ragazzi affetti da deficit o ritardi psichici. Per non parlare dei soggetti Down, che, in rari casi, divenivano oggetto di scherno o fonte di paragoni ignobili.
Ricordiamo la sofferenza di due anziani genitori, che si sono ritrovati ad affrontare il problema di uno dei figli, nato con la sindrome di Down. Il padre rifuggiva il problema, arrivando quasi a disinteressarsi di quel figlio così diverso da come se lo era immaginato; la madre invece, testardamente, imparò a lottare contro pregiudizi della gente (c’era qualcuno che non voleva che il proprio figlio si avvicinasse al ragazzo per paura che la sindrome fosse contagiosa), strutture scolastiche del tempo, francamente inadeguate e impreparate ad affrontare la “diversa abilità”. L’insufficienza e la sordità delle strutture sociali hanno finito, poi, per intrecciarsi con il crescere inarrestabile di dissapori fra i genitori, che hanno condotto alla separazione, con il padre che si allontanò dal nucleo familiare. Il coraggio, la determinazione della madre hanno permesso che il ragazzo venisse progressivamente accettato. Imparò a leggere, venne impiegato come apprendista presso un artigiano e, quelli che un tempo lo schernivano, crescendo hanno finito per volergli bene. Il ragazzo si è trasformato da problema in una straordinaria opportunità di redenzione collettiva. Se capitava che stesse poco bene, c’era un via vai alla sua porta di gente che accorreva per informarsi, rendersi utile in ogni modo. Il ragazzo si spense prima della madre, lasciando un vuoto incredibile tra tutti coloro (ed erano tanti) che avevano imparato a volergli bene. Ricordiamo la sua abilità nelle carte da gioco napoletane: era un avversario temibile. La cocciutaggine di quella madre è stata tale da permetterle di scontrarsi contro un intero assetto sociale, culturale e strutturale ed alla fine dimostrò che essere diverso non è nient’altro che un modo differente di concepire il mondo e le cose. Quella donna mise in evidenza col suo agire quotidiano quanto fosse determinante l’atteggiamento degli altri nell’accogliere e permettere al “diversamente abile” di esprimersi nelle forme e nei modi a lui più consoni. La seconda metà degli anni ’70 ha rappresentato una tappa importante nel lungo cammino per il recupero di una visione moderna sul mondo della disabilità. Nel 1977 la Legge Malfatti aboliva la vergogna delle classi differenziali e stabiliva l’inclusione del diversamente abile nelle classi ordinarie. Tanta acqua da allora è passata sotto i ponti e con essa tanti pregiudizi e inadeguatezze.
Massimo Conocchia