Il calabrese e la “fida” chitarra

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Esistono degli stereotipi tardi a morire e altri che il tempo ha cancellato e cancella.

Il napoletano è visto col mandolino in mano e intento a ballare la tarantella. Ricordiamo Troisi, in una scenetta, nella quale ironizzava simpaticamente sulla cosa: ogni canto finiva per trasformarsi in canzone napoletana, appena il mandolino emetteva una nota.

E, il calabrese come era immaginato o meglio a quale strumento era collegato?

Se il napoletano ha il mandolino il calabrese ha la fedele chitarra. Essa l’accompagna, anzi l’accompagnava dovunque, in particolare la sera, quando, giovane innamorato, andava a cantare nei pressi della casa della donna amata:

Tieni, catarra, li cordi d’argientu,

sona, cà ti li fazzu tutti d’uoru,

si tu mi fa affacciari, ‘nu mumentu,

‘e ‘ssa finestra lu caru trisùoru.

Sona, e caccia suspiri a cientu a cientu;

chiàngi, catarra, e ammòllali lu cori;

s’illa è tanta crudili e nun ti senti,

dilli, catarra mia, dilli ca mùoru!

Quanta poesia! L’innamorato, non potendo avvicinare e parlare alla donna amata, chiedeva alla chitarra di farsi messaggera. Lo strumento, per questo servizio, deve avere un giusto compenso: lui glielo darà sostituendo alle normali corde altre di puro oro.

Il suono, come il canto, ricorda il mito classico di Orfeo, che con la melodiosa voce addomesticava le bestie più feroci. Lui, l’innamorato soffre. La chitarra messaggera dovrebbe fare affacciare un momento la donna (che beata se ne dorme a letto), emettendo sospiri a centinaia. Sospiri, che ampliano e rendono melodiosi quelli dell’innamorato cuore sofferente.

La conclusione è amara: se la donna si mostra crudele e insensibile, allora la chitarra deve dirle solo che lui se ne muore.

La composizione è degna del più grande poeta, perché dettata dal cuore. La chitarra farà la magia?

Il canto continua: la donna è un’aquila dalle ali d’argento e origina portenti, perciò l’innamorato canta, accompagnandosi con la chitarra:

Àcula, chi d’argientu pùorti l’ali,

ti frùscianu li pinni, quannu vuli;

tu duvi passi l’aria fa ‘nchiaràri

e càdinu de ‘ncielu rosi e juri.

La tua bellizza nun si po’ pittàri,

mancu si veni l’anticu pitturi,

cà li bellizzi tua su’ cosa rara,

chi scuranu li speri de lu suli.

Questa è la conferma, se ve ne fosse bisogno, che i nostri antenati innamorati erano capaci di comporre dei veri capolavori poetici.

Capitava, a volte, che la donna, che aveva accondisceso alle profferte d’amore, cambiasse bandiera, come si diceva, ossia preferisse altri, lasciando il giovane ccu’ ‘nu chiùovu allu cori (con un chiodo conficcato al cuore). In questo caso, la fida chitarra da ambasciatrice d’amore diveniva muta, per esortazione, e carica di sdegno:

Pass’avanti, catarra, e nun sonàri

‘mmenti la porta de l’anticu beni;

cà si ci suoni, li pu’ rinnovàri

‘u chiuòvu forti, chi li duna peni.

Illa de mia si ni po’ scordàri,

perdissi la speranza ch’ ‘a mantèni!

Pass’avanti, catarra, e nun sonàri:

chissa è la donna chi fida nun teni.

Ora lo stereotipo del calabrese e la chitarra è scomparso, ma, cosa più, grave è scomparsa la sua poesia dai nostri monti.

Giuseppe Abbruzzo

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