Il Monachiellu… il Folletto
Nella nostra tradizione popolare esiste un’entità misteriosa, capace di fare dispetti, originare ricchezza e povertà. Di bassa statura e con barba s’insediava, particolarmente, in alcune case. Dato che, come copricapo, portava un cappuccio, il popolo lo denominò Monachìellu, diminutivo di monaco.
Non è di questo che vogliamo scrivere, ma del corrispondente, chiamato folletto e che ha le identiche caratteristiche fisiche e comportamentali.
Il Ripamonti nella Historia ecclesiastica, precisamente nella vita di S. Carlo Borromeo, riporta che nel monastero di Santa Caterina, a Monza, c’era un folletto, che ne faceva di tutti i colori. A volte rideva a crepapelle, altre volte toglieva i tegami da sopra il fuoco, altre ancora scomponeva o toglieva il velo dal capo delle donne e, perfino, delle monache. Alle ragazze, quando se ne stavano a letto, a volte le rotolava, altre le avvolgeva il capo fra i panni. Alle suore, mentre lavoravano, le rubava gli aghi o la spola, se erano intente alla tessitura.
Alcune donne sembrava che le perseguitasse, più di altre, con accanimento.
Il cardinale Borromeo liberò il convento dall’indesiderato genietto. Come? Benedicendolo!
A proposito di folletti, sentite cosa avvenne a Bologna nel 1579. La storia asserisce d’averla vista “con i propri occhi” il padre Menghi da Viadana, esorcista (1529-1609).
C’era un nobiluomo, che si ritrovò in casa un folletto che lo tormentava, dato che si era innamorato di una giovane inserviente. La seguiva dovunque e gliene combinava tante e tutte strane. Nel malaugurato caso che le avessero dato molto lavoro da sbrigare, allora, apriti cielo! Metteva sossopra la casa.
Un giorno le strappò, totalmente, un abito, poi, lo ripristinò; un altro, mentre travasava del vino in cantina, le portò via il lume. Non vi fu verso di liberarsene. Andò via, indignato, solo quando la ragazza fu costretta a mangiare su un posto schifoso.
L’anno successivo, sempre a Bologna – chissà perché questa concentrazione in quella città! – un folletto s’innamorò di una ragazza di nobile famiglia e le faceva continui scherzi: rompeva vasi, vetri; rotolava sassi enormi, gettava ogni cosa e, perfino, i gatti che gli venivano a tiro li gettava nel pozzo; insieme a tant’altri “dispregi”.
Lo si poteva cacciare come quello del primo caso riportato. Provò a farlo il padre Menghi, ma invano. Il padre si scusa coi lettori se riporta solo pochi casi “fra i moltissimi” (Arte esoterica, l. 2).
Un padre dei Minori osservanti raccontava che, a Mantova, verso il 1600, il folletto s’invaghì d’un ragazzo e gli faceva da servo, da insegnante, da facchino, da corriere. Lo serviva, insomma, in ogni suo bisogno. Tutti lo vedevano, ma ritenevano fosse un vero uomo e non un folletto. Il padre e un fratello del giovane lo videro più volte, e “andava a portar loro pesci o altro”. Temendo, però, che il folletto giocasse loro qualche brutto scherzo troncarono i rapporti col giovane, che “non si sa come la finisse”.
“Queste e simili cose – precisa il nostro – erano attestate da testimonj oculari e non ignoranti”.
La traduzione dello scritto del Ripamonti fu fatta dal Cantù.
Aggiungiamo che nel 1500 – 1600 si credeva fermamente a quella figura.
Ad Acri, si credeva al Monachiellu fino agli inizi del secolo scorso. I più astuti e intelligenti, raccontando le malefatte del genietto nostrano ammiccavano, facendo capire che le ricchezze prodotte dal genio avevano varia provenienza: manutengolismo con i briganti; amante travestito e furbo, che la faceva in barba ai creduloni, spassandosela; ecc. ecc.
La maggior parte preferiva credere ed era … contento.
Dimenticavamo: se si riusciva a strappare il cappuccio dalla testa del Monachiellu lo si riduceva in proprio potere. Vi sarà riuscito qualcuno o qualcuna? I racconti non ce lo tramandano.
Giuseppe Abbruzzo