Memorie ingiallite di fine estate

Osservare la gente e i luoghi è stata, da sempre, una delle cose che ci hanno maggiormente appassionato. Che si trattasse di uno scorcio rubato da un terrazzo, dal tavolino di un caffè, da una collina, la cosa che ci incuriosiva maggiormente, nell’osservare la moltitudine di persone muoversi, era domandarsi e interrogarsi sulle loro vite, i loro destini, etc.

I punti di osservazione preferiti erano, nell’età adolescenziale, essenzialmente due: il primo, più o meno in corrispondenza dell’attuale “Belvedere”, in zona prossima a “San Francesco”. Per raggiungere i Cappuccini – a fruire delle preziose lezioni di Latino e Greco di Padre Arcangelo – esisteva una sorta di scorciatoia che consentiva di evitare di farsi tutta Via della Sila. Vi si accedeva dal retro della fontana dell’”Acqua nova”, attraverso un ripido sentiero sterrato. Quando eravamo soli, lo attraversavamo correndo, spinti dalla paura in quanto si diceva che in quel luogo, un tempo, aveva deciso di porre fine ai suoi giorni un giovane, suicida per amore. In compagnia ci sentivamo più forti e l’andamento era decisamente più lento. Giunti all’apice di quel  sentiero, prima del “Belvedere”, ci soffermavamo ad osservare il paese dall’alto. Nei pomeriggi autunnali, una sfumata coltre di nubi in parte offuscava la visione. Nelle giornate terse, era un piacere osservare la parte più attiva di Acri muoversi. Ci attardavamo non poco a guardare, interrogarci su quelle persone in movimento. Un altro punto di osservazione  privilegiato era rappresentato dal terrazzo dello studio di casa Iulia, che dava sui Piazza dei Frutti. L’anziano e benevolo Don Salvatore, grande medico e grande uomo, ci trattava sempre con molta indulgenza, che ci permetteva di restare da quel terrazzo per molto tempo ad osservare la Piazza in fervore, la gente che contrattava, discuteva. In sintesi scene di vita quotidiana,  carpite  da un osservatorio privilegiato. C’era qualcosa in quelle scene, che le rendeva ai nostri occhi particolarmente accattivanti: era una sorta di film nel quale i protagonisti, ignari, recitavano delle scene di vita, la loro, mentre lo spettatore si divertiva ad interrogarsi su tutti e su ciascuno. L’osservatorio principale, e più suggestivo, restava comunque quello prossimo all’attuale “Belvedere”. Dopo circa 30 minuti di osservazione, riprendevamo il cammino per il convento. Adagiato su una panchina, poco prima della Basilica, ci soffermavamo con un anziano signore dagli occhiali molto spessi. Un glaucoma lo aveva fortemente menomato nel visus, al punto che riusciva a leggere con molta fatica. L’aspetto era quello di un nobile le cui origini si erano un po’ annacquate sotto i colpi, a volte duri, dell’esistere. Resisteva, comunque, in lui una certa finezza nei modi e un eloquio elegante e forbito, che ce lo rendeva simpatico. Ci aspettava all’uscita dalla lezione e chi chiedeva di leggergli qualche articolo in modo da concedere ai propri occhi una piccola tregua. Il quotidiano era ” Il Tempo”, espressione dell’allora Democrazia Cristiana. Un giorno – era il 1978 – ci fece leggere un articolo nel quale si delineavano i fondamenti di quella che sarebbe passato alla storia come il tentativo di “compromesso storico” tra il P.C.I. di Berlinguer e la D.C. di Aldo Moro. Ricordiamo ancora, come fosse ieri, i suoi commenti: “hanno passato trent’anni a scannarsi come cani e gatti; avrebbero potuto pensarci prima. Unendo le forze più pulite di questi due grandi movimenti popolari, l’Italia potrebbe risorgere. Il problema sta nel fatto che i manigoldi, dall’una e dall’altra parte, lavoreranno per sabotare questo progetto, che è l’unica via di salvezza”. Poche settimane dopo Aldo Moro venne rapito e il progetto, in effetti, abortì. Ripensando oggi a quelle parole, ci appaiono ancora drammaticamente attuali. Quel progetto di fusione si è in parte realizzato ma i manigoldi, anziché essere allontanati, sono stati inglobati e il progetto, oggi come ieri, naufraga. L’anziano signore se ne andò una mattina di fine Aprile dello stesso anno, prima che Aldo Moro venisse assassinato. Le sue parole, negli anni, ci sono più volte riecheggiate nella mente nel loro inconsapevole valore simbolico e premonitore. Pur nella sua forte menomazione visiva, quel nobile uomo aveva visto più lontano di tutti. Nelle scorse settimane, rientrando ad Acri, ci è capitato di fermarci al “Belvedere”: la visuale non era più la stessa. L’ambiente e le persone non erano più riconoscibili ai nostri occhi e tutto appariva poco nitido e sfumato. Quella visione indistinta ci ha fatto ritornare alla mente quell’anziano signore. Siamo risalti di poco per tornare a sederci su quella panchina. Con gli occhi chiusi abbiamo rievocato quelle scene di oltre 40 anni fa. Ci è sembrato che quel saggio uomo si soffermasse un attimo con noi. Giusto il tempo per sottolineare come l’apparente cambiamento estetico e formale non  rispecchiasse per nulla un mondo nuovo e che ciò che lui “vedeva” allora con i suoi occhi malati non fosse dissimile dal mondo di oggi, per lo meno negli aspetti più desolanti e nella mancanza di una visione prospettica che rende tutto squallidamente omologato e triste.

Riaperti gli occhi, avremmo voluto, per un attimo, tornare a quell’epoca, giusto il tempo di riassaporare quell’ottimismo e quelle illusioni che, in quegli anni verdi e in quella stagione, ci permettevamo di filtrare ogni cosa con una lente diversa e perduta.

Massimo Conocchia

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