Pablito ….. ovvero il concetto di diversità alle Canarie
Qualche settimana fa, approfittando della notevole generosità di un nostro congiunto e della sua famiglia, abbiamo trascorso dieci giorni a Tenerife. Le Canarie hanno la capacità di dare, anche al visitatore meno attento, la sensazione di trovarsi in un mondo lontano, non tanto geograficamente, quanto per la oggettiva dimensione di vivere in una realtà nella quale i nostri canoni e schemi di vita appaiono lontani e desueti. L’oceano, la sua quotidiana lotta con gli scogli usurati dall’acqua e dal vento, raccontano di una perenne agitazione alla quale tutti sembrano essersi abituati e che testimonia di una natura indomita e di esseri viventi attenti a non alterare gli equilibri. È questa, forse, la ragione per la quale l’uomo, in questa parte del mondo, non ha subito grossi schiaffi dalle forze naturali: il rispetto delle regole e la mancata pretesa di controllarle e stravolgerle. Un ambiente così straordinariamente armonioso è una delle ragioni principali che ci ha indotto a ritornare in questi luoghi. In quella dimensione, nella quale coesistono senza contrasto una natura indomita e una equilibrata presenza umana, ci riesce più facile ritrovare noi stessi e l’armonia con ciò che ci circonda. Al mattino, il primo atto è sempre quello di recarsi al solito bar per gustare la colazione fronte oceano. La mattina del primo giorno, ancora un po’ assonnati, iniziammo a sorseggiare il caffè – rigorosamente un espresso italiano – non curanti di chi ci stesse attorno. Non ci accorgemmo, pertanto, di un ragazzo di circa 10 anni, fino a che non iniziò a fissarci, scrutarci, e, forse spinto dalla nostra inconsapevole indifferenza, si avvicinò al nostro tavolo. Dopo un iniziale e breve stupore,gli sorridemmo e gli rivolgemmo un timido saluto in uno stentato e sgangherato spagnolo. Il ragazzo iniziò a girare attorno al tavolo, fermandosi di tanto in tanto e girando su se stesso, muovendosi sulla punta dei piedi. Si fermò, ci tastò gli zigomi, le braccia e si allontanò, nella più totale indifferenza di tutti. Non un ipocrita tentativo di far finta di nulla ma una genuina indifferenza di una condizione vissuta come assoluta normalità. Cominciammo a chiederci chi fosse quel ragazzo, se avesse qualche problema e di che natura. La prima cosa che ci venne in mente – vista l’assoluta originalità nel modo di comunicare, fatto essenzialmente di gesti e non di parole – che si trattasse di una forma di autismo. Nel fantasticare su questi pensieri, ci accorgemmo che il caffè si era freddato e ci accingemmo ad ordinarne un altro. Il giorno successivo, Pablito (nome di fantasia) – il cui vero nome apprendemmo dal gestore del bar, unitamente alla conferma della sua problematica – si soffermò nuovamente al nostro tavolo, con le medesime modalità relazionali e lo stesso rituale nei movimenti. Una cosa però ci colpì: terminato il giro attorno al tavolo, si impossessò di tre tovaglioli e si allontanò. Non facemmo molto caso a quel gesto fino a quando, al momento di andar via, ci raggiunse e ci consegnò uno dei tre tovaglioli; ce lo mettemmo in tasca senza osservarlo. Ci stupì il suo sguardo imbronciato, segno di profonda delusione. Non capimmo immediatamente . Poco più in là, nell’atto di sbarazzarci di quel tovagliolo, ci cadde lo sguardo su un disegno meraviglioso, come ne avevamo visti pochi. C’era un bambino che sottendeva un aquilone, un gabbiano e l’oceano. Impressionati dalla bellezza del disegno, compreso finalmente il gesto del ragazzo, ritornammo indietro per ringraziarlo e dirgli di avere molto apprezzato il suo lavoro. Intento a disegnare, non alzò la testa ma avemmo comunque la percezione che avesse recepito il nostro messaggio. Nei giorni successivi non vedemmo Pablito. Ne chiedemmo ragione al gestore, il quale ci spiegò che il ragazzo non aveva regole precise, veniva quando aveva voglia perché trovava spazio e persone capaci di accoglierlo. Da quel giorno le nostre passeggiate mattutine e serali si intensificarono ampliando anche il raggio, nella speranza di scorgere nuovamente quel ragazzo che aveva lasciato una traccia indelebile in noi. La nostra delusione si acuiva giorno per giorno di fronte alla constatazione dell’impossibilità di rivederlo. L’ultima mattina ci sedemmo al tavolo per fare colazione e non facemmo mistero al proprietario del fatto che, con rammarico, ci stessimo preparando a rientrare. Mentre sorseggiavamo il caffè, gustando al contempo una caracolla, la nostra gioia fu immensa nel rivedere nuovamente Pablito. Si era rifatto vivo, quasi intuendo che stavamo per partire. Ci avvicinammo per salutarlo; stavolta abbozzò un sorriso. Poco prima di andar via si avvicinò al tavolo e ci consegnò un nuovo disegno su un tovagliolo. Stavolta il tema era diverso: c’era lui, col suo aquilone, l’oceano e , in un angolo, una sorta di satellite, sul quale c’era un uomo e vi erano disegnate tante piccole cose che sul momento non ci soffermammo a visionare. Salutammo il ragazzo, che non si limitò a tastarci ma ci abbracciò. Un atteggiamento decisamente insolito, considerate le modalità relazionali in questo tipo di problematiche e il poco tempo che avevamo condiviso. Quel tovagliolo finì in un libro, che ci ripromettemmo di leggere nelle quattro ore di volo. In aereo, aperto il libro, guardammo con attenzione quel disegno. Lo stupore fu immenso quando vedemmo che cosa il ragazzo aveva disegnato in quel mondo lontano, che capimmo solo dopo trattarsi del nostro mondo. C’erano croci, a simboleggiare probabilmente morti, incendi, tante nubi, insomma un teatro spettrale e desolante. Solo allora fummo in grado di comprendere appieno la grande lezione che quel ragazzo straordinario era stato in grado di impartirci. Aveva disegnato il suo mondo, un ambiente sereno, nel quale la diversità era accettata e valorizzata; dall’altra parte aveva immaginato, in maniera straordinariamente realistica, un altro mondo, quello nel quale stavamo per ritornare, delineandone in maniera incredibilmente precisa i limiti e le miserie. La nostra imbarazzante incapacità di capire i messaggi semplici e incisivi di quel ragazzo ci ha fatto tornare alla mente quanto i cosiddetti “normali” siano sostanzialmente inadeguati a capire e accogliere chiunque si ritenga lontano e diverso.
Massimo Conocchia