Amore, gelosia e possessività nella nostra tradizione popolare
Il concetto dell’amore nella tradizione popolare calabrese è strettamente connesso alla concezione della donna che, in una società arcaica e prevalentemente agricola, quale era la nostra fino a parte del secolo scorso, era sostanzialmente dominante. La donna aveva un ruolo e una dimensione strettamente familiare e privata; spesso il matrimonio non era una scelta personale ma, in non poche occasioni, l’interessata non aveva un ruolo decisivo nella scelta. Era considerata quasi alla stregua di un bene di possesso e, fino alla fine degli anni Sessanta, anche sul piano giuridico era scarsamente tutelata.
Questa premessa era necessaria per capire alcuni componimenti popolari che, se da un punto di vista meramente stilistico e squisitamente artistico sono notevoli, tradiscono, però, la concezione suddetta. Questo tipo di visione, sicuramente distorta, in qualche occasione affiora, purtroppo, anche ai giorni nostri e le conseguenze finiscono per riempire la pagine di cronaca nera, con particolare riferimento ai femminicidi, alla base dei quali, in molti casi, c’è la non accettazione da parte dell’uomo del fatto che la donna abbia fatto, a un certo punto, scelte diverse e si sia allontanata da situazioni spesso al limite e oltre il limite.
Il componimento popolare che proponiamo è di anonimo ed esprime un pathos e un dolore da parte di chi è ancora innamorato e non si rassegna alla perdita di ciò che ritiene gli appartenga :
“Chi perda amici, chi perda parienti, ‘u chiovu ‘cchiu bruttu è chini perda l’amanti; chi lu perda muotru ‘nunn’è nenti, s’asciutta l’uochhi e ‘lli passa llu chiantu, chi lu perda vivu è fuocu ardenti quannu su vida passàri d’avanti”.
Il dramma vero, dunque, non sarebbe la perdita dell’amata in quanto morta – a quello ci si rassegnerebbe facilmente -, il problema sarebbe perderla in quanto si allontana per andare da un altro.
Analoga concezione e filosofia esistenziale è espressa in un altro componimento anonimo diffuso in Calabria: “Na vota era ‘ddu mia ‘ssu muccaturu e ‘mmo ‘u viju ad àtri maniàri. Pensa ‘ssu cori mia si ‘nna doduri, vida ‘lla robba sua e ‘nnu po parràri”.
Nel rimarcare il notevole valore artistico e la capacità di esprimere mirabilmente uno stato d’animo di questi versi, non possiamo, al contempo, non eccepirne la concezione che li sottende e che è basata su un’erronea e malata visione della donna, che era, però, frutto dei tempi e non sicuramente confinata solo tra Scilla e Cariddi. Ciò che è stupefacente è constatare che, ai giorni nostri e a vari livelli sociali e geografici, ci si imbatte in drammi frequentissimi, frutti ancora di questa visione, che speravamo potesse resistere solo come traccia storica giammai come pesante e scomoda eredità socio-culturale.
Massimo Conocchia