Reddito di cittadinanza e lavoro dignitoso
La questione del reddito di cittadinanza ha animato e sta animando non poco il dibattito politico negli ultimi tempi con la formazione di due opposti schieramenti, uno a favore e l’altro sostanzialmente contrario. E’ interessante notare come la differenza di posizione, tra fautori e contrari, rispecchi sostanzialmente una differente visione dell’uomo e del mondo. La Destra, in definitiva, osteggia la misura, ritenendola frutto di una concezione assistenzialistica della politica, che si riduce a pagare gente per starsene sul divano a poltrire. Dall’altra parte si fa notare come questo tipo di misura sia appannaggio di altri Paesi che non sono certamente secondi a noi, specie nel campo delle politiche sociali e del welfare.
Comunque la si voglia pensare, riteniamo che alcuni capisaldi debbano essere oggettivamente riconosciuti, a cominciare dal fatto che il reddito di cittadinanza ha permesso a molti di avere delle entrate sicure per vivere in un periodo estremamente difficile.
Tra chi osteggia la misura ci sono sicuramente alcuni industriali, imprenditori, gestori di aziende, soprattutto agricole o della ristorazione, che lamentano il fatto che il reddito “regalato” dal governo permetta a molti di rifiutare offerte di lavoro (in forza delle quali perderebbero il reddito) con la ovvia conseguenza di una crisi di manodopera in vari settori. Ciò che questi signori omettono di dire è che, in molti casi, i lavori rifiutati sono quelli sottopagati che, a fronte di molte ore di servizio, vedono l’erogazione di stipendi miseri. Se visto da questa prospettiva, allora il reddito di cittadinanza appare in tutta la sua dirompente portata, in quanto non solo va nella direzione di garantire reddito a chi, specie in questo periodo, non ce l’ha ma permette di non sottostare a una condizione di sfruttamento e di umiliazione, cui molti, nel recente passato, sono stati costretti a sottostare. In Calabria, e nel meridione in generale, sono tantissimi i settori che ricorrono a personale sottopagato, costretto a lavorare in cambio di retribuzioni misere e, spesso, senza i diritti necessari in termini previdenziali. Rifiutare questo tipo di condizioni, riteniamo, possa contribuire al rilancio di situazioni lavorative più dignitose e questo potrà essere possibile anche grazie a una misura che allinea il nostro Paese ad altri, sia in UE che altrove.
Sono emersi, e segnalati dai media in questi due anni di vita della misura, sicuramente delle situazioni aberranti, con gente che percepiva il reddito senza averne realmente titolo ma questo non deve portarci a buttare via l’acqua sporca col bambino. Così come andrà, a nostro avviso, rivisto il meccanismo di attribuzione e di conferma del sussidio: oltre un certo numero di rifiuti di offerte di lavoro, com’è noto, si perde il reddito. Tra questi rifiuti, però, non andrebbero conteggiate le offerte fatte al di fuori di ciò che prevede la contrattazione nazionale per quel tipo di mansione. Così facendo, si otterrebbe il duplice obiettivo di continuare a garantire un diritto importante e dall’altra si creerebbero i presupposti per condizioni di lavoro dignitose e con giuste retribuzioni.
Occorre, infine, rivedere i meccanismi di attribuzione in modo da evitare i paradossi che abbiamo visto sulla stampa in questi mesi con nuclei familiari realmente poveri tagliati fuori dalla misura e altri assai meno poveri che si sono invece visti riconosciuto il sussidio. Il sistema di valutazione troppo stringente ed adeso ai criteri ISTAT lascia fuori molti che avrebbero titolo mentre ha permesso di inglobare altri che sulla base di alcuni indicatori poveri non erano da considerarsi. Riteniamo, da ultimo, che il calcolo dell’entità dell’assegno non debba essere uniforme ma debba tenere conto del costo della vita nelle varie aree e di altri indicatori, come il prezzo degli affitti ad esempio. Uno strumento, insomma, sicuramente da migliorare in termini di maggiore oculatezza nell’elargizione ma decisamente valido e necessario.
Massimo Conocchia