“Quannu si martiellu vatti e quannu si ‘ncùdina statti”
Abbiamo deciso di riscoprire questo vecchio adagio popolare, che è espressione di rara saggezza. Chi soffriva, subiva prepotenze, aveva la capacità di non essere impetuoso, valutare, aspettare il momento propizio per reagire. Una reazione inopportuna, al momento sbagliato, rischierebbe di farci ancora più male.
L’essere incudine simboleggia una condizione di manifesta inferiorità, di debolezza: reagire in quel momento risulterebbe oltremodo stupido, oltre che inopportuno. Meglio aspettare, non muoversi, attendendo il momento in cui le condizioni o i rapporti di forza si capovolgono. A quel punto si passa dall’essere incudine a essere martello, per cui bisogna battere senza pietà. In questo adagio non c’è rassegnazione, umiliazione o remissione , come alcuni tipi di morale vorrebbero indurre i più deboli, ma puro calcolo, valutazione e ponderazione delle opportunità. Dietro l’apparente remissione e sottomissione della nostra gente, nei secoli, quasi mai c’è stata rassegnazione o passiva accettazione di uno stato di fatto, ma solo saggia valutazione dei momenti e delle condizioni. In quante occasioni il nostro popolo è passato dall’essere incudine alla condizione di battere e incutere timore! Si pensi a ciò che è stato il brigantaggio e alla vera natura di questo fenomeno, che una certa parte del pensiero dominante, in varie epoche, ha tentato di fare passare per fenomeno puramente delinquenziale. Il Brigantaggio è stato nient’altro che un fenomeno sociale di reazione a oppressione a soprusi. Si legga, a tal proposito, la bellissima composizione di Salvatore Scervini intitolata, appunto, “’U briganti”: si potrà notare come la molla che spingeva alla macchia era la violenza contro la moglie, la sorella, la figlia, un’ingiusta sentenza da parte di un giudice, etc. A quel punto, l’unico modo di riscattare la propria dignità di uomini era vendere cara la pelle. Chi perde, poi, storicamente, ha sempre torto e fu così che i briganti sono passati alla storia come delinquenti piuttosto che come valorosi intolleranti ai soprusi. Un discorso simile si sarebbe verificato nel 1945 se la guerra civile in Italia, dopo il 1943, fosse stata vinta da repubblichini.
Nella fenomenologia popolare, che tende ad assegnare a ciascun popolo un’etichetta, il calabrese è meglio conosciuto come “càpu tosta”, a simboleggiare la sua caparbietà e perseveranza nel tenere una posizione. Testa dura non va intesa, pertanto, nell’accezione di Giusti (Il re travicello) ma suona, alle nostre orecchie, come un indiretto riconoscimento del nostro essere determinati e non condizionabili. Ognuno, ovviamente, lo ha letto a suo modo, ma noi preferiamo e riteniamo più giusta la chiave di lettura appena enunciata. Aneddotica, da questo punto di vista, è la vicenda, risalente agli anni ’70 del secolo scorso, di un nostro concittadino che, per un problema serio del genitore, se lo mise in macchina alla volta di un ospedale noto, fuori regione, del quale aveva sentito molto parlare. Ad Acri non c’era ancora l’ospedale. Giunto nella città prefissata, si recò al pronto soccorso. Le condizioni del paziente, l’età avanzata, avevano indotto qualcuno a consigliare di ritornare a casa con la motivazione dell’assenza di posti disponibili. Il nostro concittadino non si scompose e replicò che non si sarebbe mosso da lì fino a quando non si sarebbe liberato un posto. A questo punto scattarono le minacce di chiamare i carabinieri e si scomodò il Direttore Sanitario in persona per indurre le persone in questione a lasciare l’ospedale. Il figlio del paziente guardò negli occhi il Direttore e disse: “Andremo insieme a verificare che in Medicina non ci siano posti, se fosse così andremmo via, se invece dovessimo trovare un posto, ti garantisco che non sarà più per mio padre ma per te…”. Alla reiterata minaccia di chiamare i carabinieri l’acrese sfidò l’interlocutore a farlo celermente, in modo che anche loro potessero verificare la veridicità dello stato di fatto. Di fronte a tanta ostinazione, dopo mezz’ora, l’anziano nostro concittadino ebbe il posto e gli animi, lentamente, si rasserenarono.
La storia del popolo calabrese è storia di lacrime e sangue ma è anche storia di diritti negati e di gente piena di dignità e valori, in nome dei quali è disposta a tutto.
Massimo Conocchia