“Germania bella!” : senso e portata dell’emigrazione negli 60 – 80 del Novecento

L’emigrazione meridionale verso la  Germania nella seconda metà del secolo scorso rappresenta un fenomeno sociologico non completamente indagato, perlomeno nelle sue infinite implicazioni, non solo economiche.  La portata del fenomeno, paradossalmente, ci è apparsa in tutta le sue gigantesche proporzioni una sera di agosto dei primi anni ’80. Eravamo con uno dei miei fratelli in Piazza Annunziata, di fronte al Bar Silano. Mentre stavamo gustando una granita al limone, si sedette al nostro tavolo uno zio che era stato per circa 10 anni tra quelli che venivano etichettati come “germanesi”, termine che richiama un fortunatissimo libro di Carmine Abate, pubblicato per la prima volta circa 40 anni fa. Ritornando al nostro congiunto, qualche bicchiere di troppo, quella sera, lo aveva indotto a una sorta di analisi retrospettiva della propria vita, che, a sua volta, lo aveva portato a rivalutare il senso di quella esperienza fuori casa. “Germania bella: birra, cunnu e sordi!”, ripeteva a più riprese senza curarsi di qualche astante che guardava incredulo. In tre parole nostro zio aveva ben espresso, più e meglio di  mille indagini sociologiche, il senso più pieno dell’emigrazione in Germania tra gli anni ’60 e ’80 del Novecento. Si trattava, perlopiù, di gente partita da casa con pochi soldi, che, in quella terra aveva trovato soddisfacimento ai bisogni più vari, dal divertimento (appannaggio dei giovanissimi) a un benessere economico impossibile in patria e, grazie al quale, era stato raggiunto l’obiettivo di costruirsi case decenti, far studiare i propri figli, realizzare, in sintesi, il sogno di un benessere agognato, per poi ritornare in patria in condizioni diverse da quelle di partenza. Noi riteniamo che, per capire a fondo il senso delle trasformazioni economiche e sociali  nel secondo Novecento, non si possa prescindere dal prendere in esame gli uomini reali, le loro esperienze, le loro testimonianze, come quella cruda ma incisiva che abbiamo citato.  Occorre, cioè, mettere al primo piano gli individui e le loro vite. Lo studio dell’emigrazione verso la Germania dal 1960 in poi ci permette di cogliere degli elementi peculiari che connotano una forte differenza con le ondate migratorie precedenti, verso le Americhe ad esempio, nel periodo tra le due Guerre e nell’immediato secondo dopoguerra. In quest’ultimo tipo di emigrazione, la disperazione la faceva da padrone, al punto da spingere intere famiglie ad affrontare un viaggio che, nella maggior parte dei casi, non prevedeva ritorno: il costo del viaggio era proibitivo e, non infrequentemente, richiedeva la vendita di quei pochi beni che si possedevano (terreni o case). Raramente si trattava di emigrazione di successo, nella migliore delle ipotesi si riusciva a sopravvivere. Coloro che partivano negli anni 40 e 50 per le Americhe venivano pianti come si rattasse di morti e i familiari si vestivano a lutto, consci del fatto che sarebbe stato un commiato definitivo.  L’emigrazione successiva verso la Germania o la Svizzera era diversa: il più delle volte partiva solo il capofamiglia e quasi mai per disperazione: il tozzo di pane in quegli anni non difettava. Si partiva per un miglioramento sociale, costruire la casa anche per i figli e permettere  loro di studiare e realizzarsi al meglio. La minore distanza permetteva, almeno due volte l’anno, di ricongiungersi con il nucleo familiare. Sul piano più strettamente economico, le rimesse dei “germanesi” sono servite a migliorare non poco le condizioni del luogo di partenza, grazie al fatto che la circolazione di quei soldi serviva alle nostre fragili economie, che ricevevano consistenti boccate d’ossigeno. Due fenomeni diversi, dunque. La prima ondata sostanzialmente negativa: si spopolavano intere realtà, che venivano private delle energie migliori e più giovani, senza che questo si traducesse in maggiori entrate o investimenti nei luoghi d’origine. La politica economica della D.C. nel secondo dopoguerra favoriva l’emigrazione transoceanica, nella ingenua convinzione che – secondo la teoria cara  a Manlio Rossi Doria – la riduzione della densità demografica avrebbe, di per sé, migliorato le condizioni di vita di chi restava. La storia ha dimostrato quanto queste teorie fossero assurde. La seconda ondata migratoria verso la Germania, invece, ha avuto, per quanto detto sopra, sicuramente delle ripercussioni positive, che è giusto sottolineare insieme al coraggio e ai sacrifici di chi se ne è fatto interprete.

Massimo Conocchia

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