Una domenica di cinquant’anni fa

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Le domeniche di una volta, fino ai primi anni Settanta, avevano delle connotazioni particolari che le rendono, oggi, ai nostri occhi, degne di essere ricordate. La domenica era l’unico giorno festivo della settimana, pertanto particolarmente apprezzato. Il sabato, generalmente, era lavorativo. La domenica tutta la città si vestiva festa, le realtà commerciali erano tutte aperte e si percepiva un fervore e un dinamismo non presente nel resto dei giorni. Conserviamo ancora nitido il ricordo di una di quelle domeniche. Eravamo ai primi di giugno. Dormendo a casa della nonna, la sveglia era impostata alle sette del mattino: c’era da lavarsi, tirarsi a lucido. Per le otto si usciva: la prima meta era la Piazza dei Frutti. Si trattava di un viaggio meramente esplorativo in quanto mia nonna ci spiegava che a quell’ora i prezzi erano troppo alti per le sue magre tasche. Il viaggio realmente utile per gli acquisti era quello fatto intorno a mezzogiorno, quando i contadini, pur di non riportarsi indietro la merce avanzata, erano disposti ad abbassare di molto i prezzi. Non si trattava più di prima scelta ma bisognava accontentarsi. Quella domenica ci è rimasta particolarmente impressa per le dinamiche successive a quel primo giro di ricognizione. Ricordiamo che quel giorno la nonna aveva indugiato particolarmente nel tirarsi a lucido. Vestito nuovo, una cura particolare nell’adornarsi i capelli. Ci fermammo al bar Meringolo: era il punto dove si facevano i gelati più buoni di Acri, rigorosamente con prodotti locali tra cui more, more di gelso, more bianche. Se chiudiamo gli occhi riusciamo ancora a percepire e ricordare quei sapori unici. Il gelato aveva lo scopo di tenerci buoni per un poco. Dopo il bar Meringolo, ricordiamo di aver imboccato la strada sulla sinistra, che, dopo una cinquantina di metri, si biforca: a sinistra si andava verso il Casalicchio, a destra si imboccava invece “a stràta ‘e Santu Dinàrdu”, piena di negozi commerciali e artigianali e trait d’union tra il centro e il Di la’ Mucone. Noi imboccammo la strada a sinistra e ci dirigemmo verso la chiesa di San Nicola di Belvedere. Poco più avanti sulla destra c’era un palazzo antico, che mostrava tutti i segni del tempo. In quell’antica residenza c’era lo studio di uno dei fotografi più noti. Entrammo nello studio. “Resta seduto qui e non muoverti, la nonna deve fare una cosa importante“, ci intimò. Arrivato il fotografo, la donna esplicitò la sua richiesta: “Voglio farmi un ritratto, non ho una mia foto… ne voglio una per la lapide e che serva anche come ricordo per i miei figli“. Il fotografo la fece mettere in fondo alla parete, dove c’era un telo bianco. Ci pare ancora di vederla seduta, austera, seria. Quanto erano diverse quelle foto rispetto a quelle che oggi scattiamo di continuo con i telefonini e nelle quali l’imperativo è sorridere, in modo che si veda bene la dentatura sana e splendente. La foto di mia nonna-e come lei di molte e molti dei suoi coetanei-era un’occasione unica, che incideva non poco sul bilancio mensile, e pertanto non andava sprecata. Lo scopo non era quello di apparire allegri spensierati bensì quello di lasciare una testimonianza del proprio passaggio sulla terra. I ricchi avevano i ritratti che li immortalavano. I poveri non potevano permettersi altro che questo “lusso”. Ricordiamo l’emozione il giorno del ritiro: un rigido cartoncino in bianco e nero e sul retro il timbro dell’autore della foto. L’occasione era solenne e questo spiega il motivo di quei visi senza sorriso, quelle espressioni austere, che avevano l’unico scopo di lasciare una testimonianza. La fotografia, in sintesi, sostituiva quello che erano i ritratti per i nobili. Ripensandoci con gli occhi di oggi, che tenerezza fanno quelle foto e quanti e quali momenti non siamo stati in grado di fermare perché la tecnologia e le magre finanze non permettevano a questa gente di lasciare traccia di loro stessi. Quella foto è finita in uno scatolone bianco, che teneva gelosamente custodito e che, oltre al ritratto, conteneva il vestito per “l’ultimo viaggio”, calze e scarpe nuove. Chi nella vita aveva vissuto di stenti, cercava, almeno, di premunirsi del necessario per lasciare un mondo che aveva concesso loro molto poco. Quelle foto, come la scrittura, queste poche righe di oggi, sono, in definitiva, accomunate da un unico obiettivo: lasciar parlare e rivivere persone che sono passate, scivolando, e che hanno, riteniamo, almeno il diritto di essere ricordate.

Dopo lo studio del fotografo, era già quasi mezzogiorno e la nonna decise, dopo un nuovo giro in Piazza dei frutti, di concedersi un altro lusso: in Piazza Annunziata c’era una Tavola calda, che faceva ottimi panzerotti. Ne aveva sentito parlare ed era giunta l’ora, avvicinandosi al crepuscolo, di concedersi un ulteriore “regalo”.

Massimo Conocchia

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