Maccartismo ed emigrazione transoceanica nel secondo dopoguerra

Il maccartismo fu un fenomeno che conobbe la sua massima espressione dopo la fine del secondo conflitto mondiale negli Stati Uniti e prende il nome dal senatore Joseph MacCarthy, presedente di un a commissione di inchiesta che si occupava di reprimere qualsiasi attività ritenuta sovversiva e antiamericana, con speciale riguardo alle attività filocomuniste. Furono anni terribili, da caccia alle streghe, durante i quali non pochi intellettuali, uomini di spettacolo, attori di Hollywood furono messi sotto inchiesta, ritrovandosi di colpo senza lavoro, tacciati di antiamericanismo. Il fenomeno raggiunse il suo culmine agli inizi degli anni ’50. Dal 1953, dopo la morte di Stalin, l’scesa al potere di Nikita Krusev e l’elezione del nuovo Presidente USA, Eisenhower, iniziò una nuova fase e con essa un allentamento della tensione tra i due blocchi a partire dalla seconda metà degli anni ’50.

Anche Acri – la Calabria più in generale – assaporò sulla propria pelle i danni di quel clima da caccia alle streghe e a farne le spese furono intere famiglie che, in procinto di emigrare per gli Stati Uniti in cerca di fortuna, si videro negare il visto d’ingresso dal Consolato Americano per via delle loro convinzioni o di ciò che avevano votato.

Agli inizi degli anni ’50, più di una famiglia del nostro comprensorio aspettava con ansia il visto per potere partire. Fra queste, è rimasta aneddotica una vicenda, tramandata e giunta fino ai nostri giorni e che, a nostro modo di vedere, merita di essere ricordata per l’intrinseco valore etico che si porta dietro. Noi la riportiamo per come nostra nonna ce la raccontava, senza aggiungere nulla.

Un capo famiglia, operaio comunista, si vide recapitare un invito a comparire presso il Consolato americano. Fu sottoposto a una serie di domande, che, fino a un certo punto riuscì a schivare. “Che cosa hai votato nelle ultime elezioni?” – gli chiesero – “Non me lo ricordo e, in ogni caso, il voto è segreto. Lo dice la nostra Costituzione, sapete?”. Stanco e visibilmente irritato, il funzionario gli chiese di giurare su quanto avesse di più caro che non aveva mai votato comunista e che non aveva mai avuto simpatie filosovietiche. A quel punto uno scatto d’orgoglio si impossessò dell’uomo, che, improvvisamente, sembrava non curarsi più del suo progetto di cambiare vita. “Ho votato comunista e me ne vanto. Non baratto ciò in cui credo per l’America. Ho votato P.C.I. perchè ci ha liberato dai fascisti e dai padroni. Non mi importa nulla di Stalin o di altri. Bandiera rossa per me significa libertà!”. “Perché, dunque, non si reca nell’Unione Sovietica? Lì si troverà più a suo agio”. “Volevo recarmi in America perché mi avevano detto che è la terra della libertà e delle opportunità, nella quale chi ha voglia di lavorare trova spazio e pane per i propri figli, che era ciò che cercavo. In realtà non è vero che siete democratici e amate la libertà. Processate gli uomini per ciò che pensano e questa non è libertà. Strappate pure la mia pratica, non voglio più partire”. L’uomo si congedò lasciando di stucco il funzionario. Dalle informazioni giunte al consolato dalla locale stazione dei carabinieri e dalla sezione della locale D.C., emergeva che era stato un combattente, che aveva rischiato la vita per il proprio Paese, era stato fatto prigioniero dopo l’8 settembre e sottoposto alle angherie dei tedeschi. Non si era mai macchiato di alcun crimine e aveva sempre vissuto del proprio precario lavoro. Un mese dopo giunse il visto ma l’uomo aveva ormai deciso che l’America non era più nei suoi programmi. Visse fino ai primi anni ’80. Riuscì a cavarsela e a fare studiare i figli. Fino alla fine dei suoi giorni raccontava di quella sua vicenda e di come aveva scelto di non barattare le sue idee e la sua dignità per un tozzo di pane.

Massimo Conocchia

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