La breve esistenza di un “Angelo”

Avrà avuto non più di 12 anni. Era affetto da un danno neurologico permanente, dovuto  all’utilizzo del forcipe all’atto di venire al mondo. Occhi immensi color azzurro, bellissimi. Costretto in una carrozzina, senza la possibilità di tenere correttamente la postura, passava le mattinate e i pomeriggi davanti all’uscio di casa ad ascoltare una radiolina a batterie, da cui non si separava mai.  Di qualche anno più piccolo, lo salutavamo al mattino, mentre andavamo a  scuola, per poi ritrovarlo, sempre lì, all’uscita. Non infrequentemente, nei pomeriggi primaverili, ci fermavamo, su invito della madre, a cercare di intrattenerlo con qualche gioco. Nel vederci al mattino ci sorrideva, spalancando quegli occhi grandissimi, che contrastavano con un fisico esile, gambe piccolissime e busto quasi scheletrico, dovuto alla progressiva atrofia. Riusciva con difficoltà a muovere gli arti, che apparivano esili e fragili. “Oggi pomeriggio ci vedremo, ok?”. Il suo sorriso di compiacenza valeva più di mille risposte. Vedendoci si rianimava, rappresentavamo una delle poche finestre su un mondo che non gli aveva dato nulla e che gli sarebbe stato anzitempo precluso per sempre. Le sue uniche modalità relazionali erano il sorriso e qualche sillaba urlata, che nel linguaggio materno stava per grazie, approvazione, diniego, nervosismo. Un linguaggio unico nel quale l’amore e la profonda condivisione permettevano una facile lettura. Amava la musica leggera italiana. Era il periodo nel quale dappertutto imperversavano radio libere, in un etere selvaggio e senza regole. Appena si passava dalla musica alle parole, cambiava espressione. Una mattina di tarda primavera, lo spazio antistante la sua abitazione era stranamente vuoto. All’uscita ci capitò di scorgere la madre che correva con l’esile corpicino in braccio. Decidemmo di seguirla: l’ospedale non c’era e la donna si recò presso l’abitazione del medico curante. “Dottore,  Dottore, sta male!”. “Che è successo?”  –  chiese l’anziano medico – “Ha avuto brividi, gli è venuta la febbre alta e ha cominciato a respirare affannosamente”. Un’occhiata fugace fu sufficiente. Il dottore abbassò lo sguardo e, rivolto alla donna, disse che non si poteva fare più  nulla. Le urla strazianti della donna allertarono tutto il vicinato che accorse incredulo a quella notizia. Se n’era andato in silenzio, come aveva vissuto, quell’Angelo dai grandi occhi azzurri. L’esile corpicino fu composto in una piccola bara bianca. Fra le mani un portachiavi a forma di cuore, che teneva sempre con sè. Non è possibile stabilire una gerarchia della sofferenza ma le urla di quella madre testimoniavano di un dolore urente, difficile da metabolizzare. Ci sono esistenze che lasciano il segno per il modo discreto di dispiegarsi, per una sofferenza muta ma egualmente tagliente. Trent’anni dopo, durante una visita al cimitero, ci imbattemmo nella sua tomba: l’usura del tempo rendeva difficile l’identificazione, se non per quegli occhi azzurri colore del mare, che ancora, dopo tanto tempo, erano capaci di parlare e coinvolgere.

Massimo Conocchia .

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2 risposte

  1. Frsncesco ha detto:

    Bello e toccante il tuo racconto. Una storia triste e dolorosa. Bravo Massimo. La cruda realtà è la migliore testimonianza di un Angelo senza ali troppo presto è volato via alla vita. La memoria rende immortali soprattutto i piccoli eroi o gli uomini comuni.

  2. Massimo Conocchia ha detto:

    Grazie tante, Francesco per le tue considerazioni e per avere sottolineato L’importanza della memoria. La memoria di quest’Angelo ci serva anche per apprezzare quanto abbiamo e per meglio valorizzarlo. Un abbraccio.

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