Musei e borghi
E’ un fenomeno la moda, che rifiuta confini ed è riscontrabile in quasi tutti i settori della vita sociale. Oggi, a titolo d’esempio, lo è, in particolare dal punto di vista politico ed intellettuale, occuparsi dei borghi e delle loro peculiarità da utilizzare per più fini, non ultimi quelli mirati a frenarne lo spopolamento, potenziandone le attrattive. Molti amministratori locali coltivano perciò come dominante il sogno del turismo, piuttosto che la promozione di migliori condizioni di vita per i residenti, non rendendosi conto del fatto che il primo, certamente da perseguire, è destinato a restare nella dimensione onirica se manca una programmazione fatta col necessario rigore. Non è, infatti, possibile al giorno d’oggi muoversi negli angusti steccati del provincialismo, tipico di chi vive o è vissuto in provincia, quindi caratterizzato da limitatezza culturale, miseria di gusto e giudizio. Frequente in quest’ottica l’agitazione del feticcio del Museo, istituzione preziosa se realizzata con criteri di obbligata scientificità, ricchezza di materiali, allestimenti ispirati a tecniche moderne, addirittura d’avanguardia. Il tutto in un ambiente, quello calabrese, dove non potendosi muovere nel campo dell’archeologia, riservato allo Stato, né tanto meno in quello dell’arte, per la difficoltà prevalentemente, non esclusivamente, economica di reperimento delle opere da esporre, si sono creati non Musei degni del nome, ma diecine e diecine di depositi di materiali facili da reperire in loco. Zappe ed aratri, falci e tini, piatti e brocche, tostacaffè macini e caffettiere, spole e arcolai, zufoli e organetti, unitamente a madie, casse, bracieri e chi più ne ha più ne metta, esposti alla rinfusa nell’ambiente, mortificati e ridotti al ruolo di ciarpame senza pedigree, si offrono allo sguardo del visitatore per lo spazio d’un mattino, inutili, ripetitivi, obsoleti, destinati a sparire dalla scena se non affidati alla direzione di professionisti di vaglia non bastando, ai fini della loro valorizzazione, un semplice trasloco.
A ciò si aggiunga che l’elevazione del gusto generale richiede, oggi più di prima, istituzioni che all’originalità, talora unicità dei materiali esposti, uniscano soluzioni estetiche espositive in ambienti idonei, consoni al patrimonio da fruire dal visitatore, non dimenticando che oltre gli obiettivi culturali da perseguire “è del Museo il fin la meraviglia”, come sostiene l’antico brocardo.
Mi è capitato più volte di dire in pubblico, per chi non lo sapesse, che, tutto sommato e malgrado le enormi difficoltà di progettazione, reperimento degli oggetti, acquisto di vetrine e varia suppellettile, scelta dei sistemi di illuminazione, stesura di didascalie, ecc. ecc. ecc., la cosa più facile è aprire un Museo, difficile è tenerlo aperto, nel senso di farlo vivere. Chi ha esperienze in merito sa, senza tema di esagerazione, che si rasenta il miracolo. E’ quello che penso ogni volta che, puntualmente, mi giunge l’invito per una Mostra, una conferenza, una sfilata o altro, in quel di Acri nei locali del Maca, il noto, a livello internazionale, Museo di Arte contemporanea intitolato a Silvio Vigliaturo. Sarebbe, perciò, il caso di stendere tappeti sotto i piedi di chi procede con caparbietà, per un ormai cospicuo numero di anni, lungo un impervio sentiero.
Da membro del Comitato scientifico, non ignoro, invece, le temporanee, occasionali contese con alcuni amministratori sprovveduti, invischiati in immeritevoli beghe di paese, intenti a depotenziare/ridimensionare quello che, senza dubbio alcuno, potrebbe/dovrebbe essere esibito come lo straordinario, insolito fiore all’occhiello di un’autentica politica culturale.
Ogni volta, varcando la soglia, inoltrandomi nel magniloquente ingresso, prima di toccare le sale superiori, avverto fisicamente la magia dell’arte, all’origine del muto dialogo da intrecciare coi personaggi, distribuiti lungo il percorso, che l’esaltazione cromatica, luminescente del vetro proietta in una dimensione surreale nella quale prendono gradualmente a vivere, necessitando di obbligati spazi paradossalmente indispensabili al loro gigantismo, alla loro immobilità.
“A bon entendeur salut!” recita un proverbio francese e l’approssimativa traduzione italiana (ma quale traduzione è del tutto fedele?) è: “A buon intenditor poche parole”.
Ottavio Cavalcanti