In memoria di Dante Della Terza

Ieri ho appreso della morte di Dante Della Terza, italianista, critico letterario, professore emerito ad Harvard, nonché relatore della mia tesi di laurea. La notizia mi ha rattristato, perché ho pensato immediatamente “Che peccato non poterlo incontrare ancora una volta e parlare con lui.”

Dante Della Terza era un grande affascinatore d’anime, seguivi una sua lezione e ti innamoravi immediatamente. Senza rimedio. Le sue parole ti piovevano addosso ora come una tempesta ora come uno zefiro, quando andavi a mensa ti appartavi, preferivi mangiare da sola per ripensare a quelle parole, al loro significato, alla loro bellezza, alla loro potenza evocativa. E mentre ingurgitavi la mozzarella di plastica sentivi salire e crescere il desiderio di incontrarlo di nuovo questo professore originario di Sant’Angelo dei Lombardi in provincia di Avellino, allievo alla Normale di Pisa nientedimeno che di Luigi Russo, affinché ti facesse dono di altre parole con le quali nutrire la tua anima. Ne parlavi con la tua migliore amica, Rosaria, che spesso lo accompagnava in 126 fino al convento di Arcavacata dove andava a dormire, per scoprire compiaciuta che anche lei era affascinata quanto te, e faceva di tutto per non saltare le sue lezioni, anzi era pronta a levare dal piano di studi un altro corso per fare la biennalizzazione nel suo corso di Storia della critica letteraria. Nessuno sapeva raccontare come lui, un raccontare arioso, elegante, affabile, senza trascurare un accento, senza rinunciare all’enfasi, senza perdere mai l’attenzione di uno studente. Era questo il suo segreto, sapere ammaliare tutti, nessuno escluso, e appena notava un calo di attenzione in aula serviva abilmente su un piatto d’argento il fatterello spassoso che gli era capitato venendo in treno da Napoli o incrociando un povero diavolo davanti al tabacchino, col quale si era intrattenuto senza alcuna spocchia commentando le notizie del quotidiano e ascoltando i suoi deliri prima di allontanarsi verso il Dipartimento di Filologia sotto gli occhi increduli e opachi di Romildo, che grattandosi la nuca non comprendeva chi fosse quel signore così gentile, il solo in tutta l’Università, da dar retta perfino al pazzo di contrada Vermicelli.

Dante della Terza era un uomo piccoletto, pancia morbida coperta da un cardigan di lana d’inverno, una camicia azzurra d’estate. Gli piaceva l’azzurro. Testa calva. Occhi che per discrezione, garbo prezioso d’altri tempi, non si posavano mai direttamente sulla persona con la quale interloquiva ma su un punto indefinito che poteva essere il bottone gioiello della camicia (andavano di moda i bottoni gioielli in quegli anni), i sandali infradito, o le mani. Due o tre volte mi guardò negli occhi con attenzione: quando gli chiesi la tesi, quando mi laureai. Gli avevo chiesto una tesi sull’ultimo Leopardi, sul ciclo di Aspasia ma mi rifilò una noiosa tesi sui Dialoghi di Torquato Tasso. Ero innamorata, potevo mica rifiutare, mi avesse assegnato una tesi sui cani randagi dell’Università l’avrei accettata senza battere ciglio. Iniziò così la mia frequentazione col professore. Una frequentazione non facile, essendo sempre in giro per convegni, lectio magistralis, studi, insegnamento accademico sia all’Unical che ad Harvard.

Lo rincorrevo dalla Biblioteca di Filologia a lezione nelle aule dei tristissimi capannoni, per parlargli del mio lavoro. Strada facendo, lui ogni tanto annuiva e diceva “belle idee signorina” (con una erre moscia deliziosa, lui dell’Irpinia mi chiedevo dove l’aveva presa sta erre moscia, forse in Francia dove aveva insegnato come assistente d’italiano in un liceo di Tolosa), “mi pare che lei non abbia molto bisogno di me, vada avanti, vada pure avanti e mi raccomando approfondisca, si faccia delle domande, non si accontenti mai di quello che legge” e mi mollava bibliografia su bibliografia, venti annate di Belfagor, fogli svolazzanti di articoli che mi aveva messo da parte con sopra macchie di caffè e i suoi appunti per me con altri riferimenti bibliografici, in una grafia bellissima che guardavo con ammirazione e stupore, incapace di comprendere come mai un professore così autorevole potesse offrirmi con nonchalance degli appunti così vissuti. Ogni tanto mi invitava al bar a bere un caffè: una situazione per me di grande imbarazzo, lui basso, io altissima, non passavamo inosservati mentre scendevamo le scale e lui senza guardare dove metteva i piedi, declamava a memoria canti della Divina Commedia mentre facevo attenzione che non precipitasse dai gradini stretti e morisse prima di firmarmi la tesi.

“Brava brava ha fatto un buon lavoro anche se non ho avuto ancora tempo di leggere il terzo capitolo. Sono appena tornato da Harvard signorina (erre moscia dolce che ammaliava pure la barista che mentre serviva i caffè lo guardava come per invogliarlo a pronunciarla ancora questa erre, pure decontestualizzata dal discorso che stava facendo) e quindi lo leggerò stasera.”

Quando la barista chiedeva le cento lire dei due caffè, frugava in tasca, tirava fuori dollari, appunti, post-it, chiavi, matite spuntate, tutto tranne monete italiane. Quindi si girava nella mia direzione e senza guardarmi negli occhi diceva “signorina sono mortificato, ma essendo appena rientrato dagli States non ho avuto tempo per fare il cambio, può provvedere lei?”

Indossava la solita camicia celeste e un completo color avorio. Era primavera inoltrata e congedandosi recitò alla cassiera i versi della follia d’Orlando. Non ho mai saputo se la signora lo archiviò come pazzo o un genio. So solo che ogni volta che mi vedeva da sola mi chiedeva del professore. In quella landa desolata in cui i lupi spelacchiati avevano perso l’abitudine di ululare, e tutti rubavano i fiori dell’orto botanico, chi mai poteva averle recitato con quell’afflato poetico dei versi?

Credo che se lo ricordi ancora.

Grazie professore per tutte le parole che ci siamo detti, per le nostre passeggiate, per tutti gli stimoli che mi ha dato, per quel tempo felice che lei ha reso ancora più felice, per quell’insegnamento a non contentarsi mai che forse è il solo modo per restare giovani e non invecchiare mai, e che io perseguo umilmente dopo tanti anni.

Aurora Luzzi

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2 risposte

  1. Massimo Conocchia ha detto:

    Bellissimo affresco di un grande intellettuale e di un grande uomo. Come tutti i più grandi intellettuali e gli uomini di valore, estremamente umile, qualità sempre più rara, in un mondo in cui prevale l’invidia e il risentimento, il più delle volte dovuti a frustrazione e constatazione della propria pochezza. Molto bello.

  2. Aurora ha detto:

    Era davvero un Intellettuale di altri tempi. Mi ha sempre meravigliato questa affabilità per tutti, sia che fosse il pazzo di Vermicelli che un filologo famoso da lui invitato per fare il seminario. La sua aula era sempre molto affollata, e quando dentro non c’ era più posto spalancava le finestre e noi da fuori seguivamo la lezione. Nessun altro mi ha mai appassionato tanto. Gli devo tanto. Gli sono grata davvero.

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