Il governo Draghi
Il nuovo governo presieduto da Mario Draghi, di forte matrice europeista, si è visto accordare la fiducia dai due rami del Parlamento, 262 voti al Senato e 535 voti alla Camera, entrando nel pieno esercizio delle sue funzioni.
Una personalità di indiscussa competenza, garantita da un elevato grado di riconoscimento a livello internazionale, è stata chiamata a traghettare l’Italia dall’uscita della pandemia ed a porre le basi, strutturali e di riforma, per l’utilizzo strategico dei 210 miliardi di euro del Next Generation EU, risorse vitali per il futuro del nostro Paese in grado di avviare una “Nuova Ricostruzione” dopo quella successiva al disastro della Seconda Guerra Mondiale.
Si tratterà di un lavoro gravoso e sicuramente non esente da insidie politiche, vista l’evidente eterogeneità della maggioranza che lo sostiene, ma è un compito che dovrà essere adempiuto, pena l’infausta sorte di un completo stallo strutturale del Paese.
Leggendo il discorso del Presidente del Consiglio dei Ministri, un elemento che mi ha indotto ad una controllata fiducia sull’occasione della nuova proposta di governo, è stato il richiamo alle riforme.
Su questo aspetto Draghi si è rivolto a Cavour, per il quale “…… le riforme compiute a tempo, invece che indebolire l’autorità, la rafforzano”.
Il modello di governo Draghi, definito quale “Governo del Paese” retto da uno “spirito repubblicano”, basa il successo della sua futura azione politica su un radicale processo di riforme del “sistema Paese”: della pubblica amministrazione, centrale e periferica, improcrastinabile, connotata da evidenti fragilità, aggravata nel Mezzogiorno; della sanità, il cui l’elemento nevralgico viene individuato nella sanità territoriale; della scuola, con investimenti nella formazione del personale docente per l’allineamento dell’offerta educativa alla domanda delle nuove generazioni, con un ruolo di particolare attenzione agli Istituti tecnici; del fisco, per il quale viene richiamato l’esempio della Danimarca che varò una Commissione per una rivisitazione completa dell’assesto fiscale, architrave della politica di bilancio, abbandonando la logica di interventi episodici e non strutturali; della giustizia, per la quale urge il rafforzamento e l’efficientamento di quella civile, sulla scia delle raccomandazioni delle Country Specific Recommendations indirizzate dall’Unione Europea al nostro Paese negli anni 2019 e 2020; delle politiche attive per garantire la parità di genere e per un maggiore coinvolgimento delle donne nella vita politica, istituzionale ed economica del Paese.
Insomma, nel complesso, un cambio sostanziale del paradigma di governo: prima le riforme, intese quale terreno solido e fertile su cui innestare gli interventi e poi, le concrete azioni, finanziate dal Programma del Next Generation UE e basate sul principio dei co-benefici, in grado di garantire un impatto simultaneo in più settori in maniera coordinata.
Il processo, complessivamente inteso, si indirizzerebbe, nei settori strategici a cui è diretto il Piano, sulla scia della transizione ecologica, a migliorare il potenziale di crescita dell’economia italiana tale da generare aumenti sensibili di Prodotto Interno Lordo e, quindi, ricchezza nazionale.
Risulta, visibilmente, un impegno titanico e coraggioso a cui, certamente, rendendo ragione alla propria intelligenza e capacità critica, non bisogna dare un’adesione incondizionata e completa.
In politica contano i fatti e, come diceva Carl Marx, di buone intenzioni è lastricata la via che porta all’Inferno.
Un elemento, comunque, che considero consistente per il proposito, è il ragguardevole livello di competenze del Presidente del Consiglio chiamato a gestire il lungo ed impervio percorso, personalità sulla quale penso che nessuno, o quasi, possa mettere in discussione le indubbie capacità tecniche e diplomatiche.
Sintomatica di questa caratteristica, è stata una sua uscita del 26 luglio 2012 allorquando, all’epoca a capo della Banca centrale europea da poco più di un anno, pronunciava uno dei suoi discorsi più famosi contenente l’ormai celebre frase “whatever it takes”, in riferimento agli sforzi che la Bce avrebbe compiuto per difendere l’eurodalla crisi economica che stava colpendo l’eurozona.
Solo quelle parole, traducibili in italiano con “costi quel che costi”, scongiurarono il rischio di una forte recessione che avrebbe probabilmente minato alla base la solidità del sistema economico-finanziario dell’Unione Europea e quindi, in misura maggiore, data la sua debolezza strutturale, il nostro Paese.
Questo è il personaggio.
Oggettivamente e programmaticamente, invece, la strada segnata presenta degli ostacoli tali da poter mettere a rischio il raggiungimento degli obiettivi fissati.
Un primo ostacolo è rappresentato dall’uscita della pandemia.
Se essa non avverrà in tempi celeri, o quantomeno ragionevoli, gli effetti del ritardo si produrranno inevitabilmente sulla solidità e tenuta del nuovo governo, il quale si troverà ad agire con una funzione instabile di breve termine.
Sulla questione, ci sono evidenti deficit da colmare realizzati del passato governo Conte bis che, in materia, è intervenuto sicuramente con indugio e, quindi, inevitabilmente male, apparendo la velocità, invece, valore essenziale per la protezione delle persone, delle comunità e per evitare il pericolo di insorgenza di varianti del virus, ad oggi già apparsi sulla scena.
Allo stato, la campagna vaccinale risulta in forte ritardo ed a rischio fallimento, come dimostrano le parole della stessa Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen che, durante una riunione plenaria del Parlamento Europeo a Bruxelles della scorsa settimana, ha ammesso il rallentamento nel rilascio delle autorizzazioni dell’EMA e nell’approvvigionamento delle fiale.
L’attuale governo, si pone l’obiettivo di accelerare la compagna di vaccinazione mettendo in campo tutte le forze possibili, dalla protezione civile, alle forze armate ed ai volontari, utilizzando completamente le strutture disponibili, sia pubbliche che private.
Certamente un bagno di umiltà, cosa mancata al vecchio governo, osservando le azioni degli altri Paesi, quale Inghilterra, Germania, Russia, potrebbe essere utile al raggiungimento dell’obiettivo vitale.
Il secondo pericolo, invece, è la tenuta della maggioranza che sostiene l’attuale governo.
La stessa, infatti, si presenta larghissima ed eterogenea e ricalca nei numeri, per ampi tratti, i governi di unità nazionale che garantirono l’azione del potere esecutivo sino al terzo governo De Gasperi del 1947.
Attualmente, esistono esperienze comparative, i governi tedeschi Merkel, che hanno saputo assicurare alla Germania un orizzonte pieno di legislatura, seppur fondati su coalizioni di forze politicamente in contrasto tra loro.
Secondo il neo Presidente, il Governo sorretto da una così ampia maggioranza, non costituisce un fallimento della politica, perché i partiti non hanno fatto un passo indietro, ma uno in avanti, in ragione del loro “dovere della cittadinanza”, che impone una leale collaborazione per il bene comune.
Su questo aspetto, dissento, poiché è proprio il fallimento della politica, o meglio delle sue astratte ed inconsistenti formule di governo, ad avere decretato la fine dell’esperienza del Conte bis ed aver giustificato, di fronte a detta inadeguatezza, il Presidente della Repubblica alla chiamata di Mario Draghi per porre rimedio, con appello all’unità ed alla responsabilità delle forze politiche, allo stallo parlamentare inveratosi.
Di fatto, la chiamata alle armi non si sarebbe potuta evitare con il voto anticipato che, seppur vitale per il pieno esercizio dei diritti di democrazia partecipativa, non avrebbe scongiurato l’azzardo di interventi troppo lunghi nei tempi ed inefficaci nella sostanza, vista l’attuale situazione sanitaria, economica e sociale.
Come l’attuale maggioranza saprà sostenere la governabilità, dipenderà del grado di responsabilità con cui abbandonerà, per il momento, gli interessi di partito e si porrà a supporto dell’intrapresa azione di governo, incidendo, comunque, su detto aspetto, con un certo grado di forza, l’autonomia e l’indipendenza del Presidente del Consiglio, irrobustita dalla diretta indicazione del Premier da parte del Capo dello Stato.
A questo punto, a noi semplici spettatori, non rimane altro che essere fiduciosi e sperare che tutto vada per il meglio.
Auspicare che ci governi sia responsabile, in modo da potere assicurare, soprattutto ai nostri figli ed alle nuove generazioni, un Paese migliore e più giusto.
Una cosa, però, dobbiamo garantirci: che i nostri sguardi siano vigili e giudichino con spirito critico le misure adottate.
La democrazia, infatti, non è sospesa e non morirà ed alle prossime elezioni saremo chiamati ad esprimere il consenso su quelle persone a cui affidiamo il nostro destino, donne e uomini che dovranno rispondere, con solida responsabilità e coscienza, delle azioni compiute.
Angelo Montalto