Amai la giustizia, odiai l’iniquità

L’articolo di Massimo Conocchia sul PCI, mi spinge a qualche riflessione.

L’adesione popolare a quel partito era dettata non da conoscenze filosofiche sottese, ma dal desiderio di Libertà e Giustizia.

Mio nonno materno, comunista, antifascista, spirito ribelle, non so se volutamente o involontariamente, mi aveva inoculato l’amore per la Libertà, la Giustizia sociale e quanto connesso.

Diplomato giovane, per quei tempi, condivisi col popolo quei cardini del vivere civile ma, a causa di comportamenti avversi, dovetti constatare la fine di quel sogno.

Percorsi a piedi, in lungo e in largo, il territorio comunale da giovane maestro elementare. Dovunque avevo scambio d’idee coi saggi anziani. Libertà, mi diceva più di uno, è poter avere quello che hanno gli altri. La giustizia? ‘U judici penni duv’ ‘a giustizziamori! E la bilancia pendeva sempre verso gli stessi. Uno di loro mi spiazzò, ponendomi la domanda: – Tu sei libero? Avresti voluto fare quello che fai?… Se non l’hai potuto fare non sei ibero -. Esiste quella che si dice intelligenza pratica. Quella dei miei interlocutori lo era.

Mi dicevano che si otteneva qualcosa solo se si era du buttunu, ossia se si era vicino ai potenti, a quelli che detenevano il potere.

Contro i “padroni” solo il PCI lottava per quella Libertà, quella Giustizia. Così concludevano e, in parte, era vero.

Dovevo, poi, provare sulla mia pelle la discriminazione, la limitazione della Libertà, le delusioni più amare, il fuoco amico, “l’esilio”. Dirò solo qualcosa.

Per continuare gli studi dovevo procurarmi i soldi. Superai l’ammissione alla Facoltà di Magistero di Messina: quinto su cinquecento concorrenti a soli sette posti. Spesi i pochi soldi guadagnati, facendo supplenze, e, giocoforza, dovetti ritirarmi. La mia libertà di scelta morì là.

Mio padre colpito da ictus aveva bisogno di cure costose. Dovevo assolvere agli obblighi di leva. Decisi di concorrere per farlo da ufficiale. Avrei avuto la possibilità di aiutare i miei. Mi comunicarono, a esami superati, che ero idoneo, ma non mi nominavano per mancanza di posti. Potei appurare successivamente che la verità era nelle informazioni avute da Acri: nipote di Filippo Giuseppe Capalbo, comunista e antifascista. Bella la Libertas, che si decantava. Io non ne avevo diritto, non per causa mia, ma di mio nonno! Per le idee che aveva professato e difese!

Per lo stesso motivo non fui inviato alla NATO a Bagnoli, pur essendo terzo classificato nel corso di telescriventista. Feci, però, le esercitazioni con la Nato, pur essendo quel temibile nipote. In quel caso, fu apprezzata la mia “professionalità” per salvare da eventuali punizioni ufficiali e sottoufficiali.

Capii, quanto mi dicevano gli anziani, che era tutto un bluf. Piegarmi al più forte? Neanche a pensarlo. Ero stato educato a tenere la schiena ritta.

Capii cosa soffrivano operai, emigranti, contadini e perché speravano che il PCI avesse potuto difenderli. Non motivi ideologici, ma l’aggrapparsi a chi avrebbe potuto e dovuto difenderli.

Fui sollecitato a candidarmi nel PCI. Lo feci con quelle idee per le quali aveva lottato e sofferto l’intera vita il mio Maestro. Egli, quando non era più impegnato in politica e non faceva più giornalismo, in famiglia ci aveva come uditorio. Quante volte gli ho sento recitare nei suoi discorsi le parole di papa Gregorio VII: “Amai la giustizia, odiai l’iniquità, perciò muoio in esilio”. Non capivo cosa volesse trasmettermi. Lo capii col tempo.

Nelle campagne elettorali ero sostenuto da tanti, qualcuno, in forma eloquente mi diceva: “Noi siamo il braccio, ma non abbiamo la parola, perciò, tu devi proporre, batterti e noi ti sosteniamo”. Non solo la base del partito mi votava, ma anche appartenenti ad altri partiti. Questo evidentemente dava fastidio a maneggioni, opportunisti ecc. che si servivano del popolo per loro interesse. Fu così che dovetti subire il fuoco amico. Non ero funzionale al sistema per quelle idee di Libertà e Giustizia sociale, ma quelle vere, quelle che voleva il popolo e che solo a paroleinteressavano i suddetti.

Capii, allora, perché il nonno, con rammarico, pronunciava la celebre frase di Gregorio VII. Lui, purtroppo, era stato vittima del fuoco amico ed essendo, come si definiva, comunista anarchico, non si ritrovava con chi a parole fingeva di lottare e difendere quel popolo, del quale si riempiva la bocca.

Tanti, che hanno creduto, lottato e sostenuto quel Partito, con amarezza hanno dovuto constatare che tanti politicanti avevano finto di difendere il popolo e alla fine gli avevano ucciso perfino la Speranza.

Giuseppe Abbruzzo

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