Un’industria perduta
Per capire bene cosa eravamo e dire o, se volete, cantare sull’aria della “disperata”, col popolo: Cà si sapìssi chi sugnu e chid era / cumu ‘na picciulìlla ciangerìa (Perché se sapessi come sono ridotto e cosa ero / come una piccolina piangerei), bisogna conoscere quanto avevamo e quanto si è, progressivamente, perduto dopo l’Unità d’Italia. I motivi? Li cerchi chi vuole, noi vogliamo solo fornire documenti.
Siamo costretti a non citare le fonti e ce ne scusiamo ma, nel nostro bene amato paese o se volete città, vi sono storici del copia incolla, che menano come loro le ricerche altrui. Le mosche cocchiere non muoiono mai!
Un’industria fiorente, fino all’anteguerra 1940 e negli anni immediatamente successivi, era quella dei fichi. Ad Acri, ad esempio, la produzione e la lavorazione impiegava molta manodopera. Vi era una industrietta, che lavorava i fichi, li impacchettava ed etichettava per un’industria di Livorno. Vi chiederete: come mai? Faceva più effetto un’etichettatura di quel tipo e di quella localizzazione. Questa parte d’Italia, ridotta a “colonia” dava poco affidamento!!!
Veniamo al documento di fine 800.
Vi si precisa che “La preparazione dei frutti secchi”, in Calabria, “in genere è limitata” e si evidenzia: “Ciò che merita considerazione è l’industria dei fichi secchi”.
Così se ne discorre: “I fichi si raccolgono appassiti e si fanno asciugare al sole spandendoli sopra graticci” – comunemente detti cannìzzi, perché si costruivano intrecciando canne, opportunamente lavorate -; “quando però sono eccessivamente maturi si fa uso del calore del forno. La più gran parte dei fichi secchi destinati al commercio viene confezionata eseguendone la seccagione al sole; appena asciutti si vendono agl’incettatori, che li comprimono in casse di legno di castagno e li esportano”.
I fichi così essiccati, a volte, subivano un grave danno: un acquazzone improvviso deteriorava il prodotto. Allora non restava che infornarli. Tanto costituiva una grave perdita per i produttori, che non trovavano compratori del prodotto così ridotto.
Cediamo alla precisazione contenuta nel documento, quando l’essiccazione andava a buon fine: “Ma oltre alla predetta preparazione, i fichi si sogliono ancora confezionare in diversi modi, infilzandoli o facendone una specie di treccia, formandone dei piccoli globi avvolti nelle foglie della stessa pianta, ed accomodandoli altresì a guisa di stelle. Spesso si usa imbottire i fichi con noci e mandorle con pezzettini di corteccia di cedro o di polveri aromatiche”.
Il riferimento, come si sarà compreso, era alle jette (trecce), ai “palluni”, ossia ai fichi confezionati a palle, racchiuse in foglie della stessa pianta e legati con fili di ginestra. Altro riferimento, quello “a stelle”, è a quelle comunemente dette “crucetti”.
Prosegue il documento: “I fichi secchi di Cosenza, e specialmente quelli che si raccolgono nelle colline sono assai squisiti; non sono cosi prelibati quelli della pianura e delle spiagge del Tirreno perché sono più acquosi e meno sapidi.
L’industria dei fichi secchi alimenta una ricca esportazione e si estende sempre più per nuove piantagioni che annualmente si fanno. Nel solo circondario di Castrovillari la produzione dei fichi secchi non costituisce esteso commercio, abbenché il suolo ed il clima siano favorevoli alla coltivazione di questa pianta. Si distingue il circondario di Paola per la buona preparazione: la ricerca e lo smercio concorreranno indubbiamente a perfezionarla. Nel solo comune di Verbicaro (Paola)[ndr qui il riferimento è al Distretto di appartenenza: Paola] si producono annualmente 6.000 quintali di fichi secchi e si preparano col zibibbo, detto colà comunemente duraca. Per la qualità si afferma che «sarebbe superiore a quella della Grecia e della Spagna se si conoscessero i modi di accomodarla, onde presentarla al commercio abbigliata con gli abiti di moda”.
Proprio così. Nessuno ha capito che quella grande produzione e confezione andava non solo intensificata su basi più moderne e, soprattutto, “abbigliata con gli abiti alla moda”. Lentamente tutto si è abbandonato e non solo non si è aiutato a far diventare quella risorsa superiore a quella della Grecia e della Spagna, ma ci siamo ridotti a importare fichi, e non solo, proprio da quest’ultima.
Ricordiamo, infine, che i fichi secchi erano impiegati nella preparazione di sciroppi casalinghi e nella confezione di dolci tipici. Uno di quest’ultimi somigliava moltissimo al panforte senese.
Ora qualcuno tenta di riprendere la preziosa produzione dei fichi, ma… riprendere dopo la distruzione è impresa ardua e difficile.
Diviene anacronistico, intanto, il: “consumiamo italiano”. Nel caso in questione non solo si è distrutto, ma nessuno degli addetti al “ramo” si è preoccupato di sollecitare e aiutare la ripresa dei prodotti di questa negletta parte d’Italia.
Giuseppe Abbruzzo