Calamo, Esaro, Beltrame, torrenti e disastri

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In un commento al mio pezzo di quindici giorni fa, un anonimo signor Stefano (che sembra non avere cognome), mi ha sollecitato a scrivere sulle vicende dell’intubamento del torrente Calamo. Lo faccio con estremo piacere, sia per ristabilire alcune verità mistificate ad arte, sia per non dimenticare, ad Acri, in Calabria, in Italia, quanto sia urgente una transizione ecologica nei territori fragili, devastati dalle alluvioni, dai recenti e sempre più drammatici cambiamenti climatici, che provocano disastrosi danni per le persone, gli insediamenti, l’agricoltura, il paesaggio, i sistemi ambientali.

I disastri come quello recente di Crotone, e ancora prima del 1905, del 1996, o quelli del Campeggio di Soverato, a causa dello straripamento del torrente Beltrame, sommano il triste conto di ben 24 morti, e molte volte con ignoranza e superficialità sono stati attribuiti alla “natura matrigna”, non all’aver sbancato intere colline -tutte attività che proseguono-, cementificato quasi tutti i torrenti e le fiumare, devastato equilibri ambientali e geologici.

La vicenda dell’intubamento del Calamo, ad Acri, è sintomatica e si inserisce nella logica di quegli anni difficili, in cui sviluppo e arretratezza si mescolavano senza confini. Il Calamo, forse riduttivamente detto torrente, è sempre stato un corso d’acqua impetuoso, soprattutto in inverno e non solo; nella prima decade degli anni Ottanta era inoltre un pantano pieno di immondizia (altro che discariche odierne a cielo aperto), di detriti di ogni tipo, insomma era la cloaca massima degli acresi. Inoltre, in più occasioni, nel tempo delle piene, il Calamo, si riempiva di acque di colore melmoso in forma così significativa da fare paura a tutti per l’imponente quantità e violenza, portando via tutti i detriti e la spazzatura che vi si era accumulata e scaricandoli nel Mucone, poi nel Crati e dunque nel mare Jonio.

Da premettere che ad Acri, come in tutta la Calabria, lungo il corso del torrente, eccezion fatta per il bellissimo orto di “Sante e Diummia”, a ridosso delle sue rischiose sponde, si era costruito come se nulla fosse, ossia non comprendendo il pericolo idrogeologico e morfologico e chiudendo il fiume tra case e palazzoni, dunque con una prima cementificazione che era avvenuta proprio ad opera di tanti privati che lungo le sponde avevano deciso di costruirsi casa.

Quegli stessi privati che spesso gridavano al pericolo per il fiume in piena! E forse oggi sono tra coloro che puntano il dito contro il Calamo intubato. Incredibile ma vero.

Il Sindaco Angelo Rocco, all’epoca, con una decisione senza dubbio votata alla salvaguardia del benessere pubblico, si consultò con diversi esperti per capire come arginare i disastri del Calamo, e alla fine venne fatto il nome di un consulente specializzato in ingegneria idraulica, il professor Vincenzo Marone dell’Università della Calabria. Marone, come tanti altri illustri colleghi, in quegli anni era per le soluzioni radicali, e molto poco ambientaliste, perciò decide di realizzare un tunnel lungo il corso urbano del torrente e deviarne l’andamento nei pressi del Purgatorio, e non solo. Insomma, chiude alla vista sia il corso naturale, sia i detriti e i rifiuti, e propone che sulla galleria si faccia un viale alberato, quello che vediamo oggi, e al Purgatorio una grande spianata di asfalto che lascia solo il povero cipresso al centro, unica testimonianza del sistema naturale precedente.

Quel viale e quel grande spiazzo che vediamo e usiamo oggi, ha la sua “testata” in Piazza Sprovieri, dove, ad una Cooperativa di architetti e ingegneri acresi, dei quali facevo parte anche io, viene chiesto di progettare un parco, che sarà realizzato in totale difformità dal progetto, a cura dell’Opera Sila. Nulla a che fare dunque, questo gruppo di progettisti acresi, con l’intubamento del Calamo, e pertanto l’aver gettato fango, sport molto diffuso ad Acri, sull’anello più debole della catena, come sempre accade, rappresenta la volontà di colpire in forma personale qualcuno, screditarlo agli occhi dell’opinione pubblica locale, senza conoscere la realtà. Il signor Stefano (anonimo), lettore attento, prenda nota!

Facendo due conti rapidi, a proposito di disastri ambientali e idrogeologici, è noto che costa molto di più non intervenire prima, che poi dover risarcire, con costi economici ed ambientali moltiplicati. Il paesaggio calabrese è stato mortificato, depredato, alterato da anni di insensate e folli attività edilizie, di bassissima qualità costruttiva, senza regole, senza limiti, senza la più minima attenzione ai luoghi, immaginando che la risorsa suolo fosse sconfinata e che si potesse rapinarla continuamente e costantemente. A nulla sembrano bastate le vittime di Soverato e quelle innumerevoli dei tanti disastri ecologici, passati e recenti, si intravede una incuria perenne dei centri urbani e del loro crescere oltre ogni sano confine naturale. Ad Acri, ovunque in Calabria e in Italia, sono stati erosi ettari di campagna, regalati alla speculazione, e al consumo esasperato di suolo, come dicono i drammatici dati del recente rapporto ISPRA. Ancora oggi, tuttavia, assistiamo ad una impreparazione, improvvisazione di amministratori locali e regionali, incapaci di una minima sensibilità ambientale e di attenzione alle risorse naturali. In fondo la logica è sempre la stessa: lasciamo costruire il più possibile, così prosperano famiglie, cementiamo fiumi così ci liberiamo dei problemi che creano e creiamo altro lavoro, facciamo le case lungo le coste e sulle montagne così arrivano i turisti, e via discorrendo con amenità e simili disastrose scelte!

E’ ora di invertire la tendenza, cambiare si può e si deve, macerie, fango, cemento devono lasciare di nuovo posto ad una bellezza da ritrovare in ogni piega di questa terra troppo martoriata!

G. Pino Scaglione

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