“U mis’ ‘e Natàli”
Non a caso si parlava, un tempo, di “mis’’e Natàli”, perché si creava, per tutto un mese, un’atmosfera, un clima, che non si limitava alla sola festa ma che, anzi, la preannunciava e preparava. Quelle settimane precedenti erano caratterizzate da un fervore e un dinamismo che scaldava i cuori di ognuno e tutti si sentivano più buoni. “Diventa sciampagnunu ugn’avàru”, si diceva.
Tutto si apriva con il 30 novembre, “Santu ‘Ndria”, che era considerato il messaggero delle festività.
“Santu ‘Ndria porta lla nova
Ca lu sia è de Nicola,
l’ottu è de Maria,
‘U tridici è Santa Lucia.
‘U vintunu San Biàsu canta:
‘U vinticincu è la Nascita Santa!”
In questa cantilena, che le mamme declinavano ai bambini, c’era la sintesi delle tappe più importanti del mese. Una sorta di calendario dell’Avvento essenziale, che preludeva alla festa.
E ancora, tra le cantilene e le ninne nanna delle nostre madri, ci riecheggia la seguente:
“Duormi, duormi ninnu bbiellu,
mamma tua è de davurà,
te dde fàri i quazettielli
ppe ti mmintari a Nata’”
Era una festa che coinvolgeva tutti, grandi e piccoli. Chi non ricorda le uscite serali per raccogliere la legna necessaria per il falò della vigilia?
“Ppe ll’amor’’e du Bomminiellu, nu dunàti nu pezzariellu?”
Ogni quartiere faceva a gara per fare il fuoco più grande. Nella notte della vigilia ci era permesso restare fuori tutta la notte davanti al fuoco. Al mattino le massaie venivano a riempire i bracieri per scaldare le fredde dimore.
In ogni casa fervevano i preparativi per pane, dolci e gli immancabili e ben augurali “cullurielli”; durante la fase della frittura era vietato bere: “si dissicca la fressura”, ci dicevano. Il fine era – come ci ricorda Giuseppe Abbruzzo – benevolo, ossia nascondeva la preoccupazione delle madri che l’acqua potesse andare nella padella facendo scoppiettare l’olio con immaginabili conseguenze.
Durante tutto il mese, al mattino presto, venivamo svegliati dalle urla dei maiali (che venivano macellati in casa): anche quello era un rito, con componenti pagane, che vedeva in quel sacrificio un modo per esorcizzare e allontanare morte e guai per gli umani. “A morti tua, a saluta ‘e du patruni” , si recitava. Il parco “caccia” era invaso dai ragazzi che prelevavano il muschio per i presepi. Per lunghi anni – Ahinoi – c’è stato chi si recava in Sila a fare strage di pini per l’albero, pratica via via abbandonata in forza di una ritrovata cultura ambientalista. Gli alberi sintetici hanno finalmente sostituito, da tempo, quelli naturali.
Per le strade era un pullulare di gente, specie in Piazza dei frutti. Il negozio di Piro (‘U cunigliu), di buon mattino, diffondeva musiche natalizie per tutto il mese e contribuiva non poco a rendere più viva la festa. “’U mis’’e Natali” di una volta rappresentava un modo autentico, genuino, di vivere in sintonia con se stessi e il prossimo la gioia di una festa che, al di là di ogni credenza, simboleggia più di ogni altra amore e solidarietà. La stessa solidarietà che scattava tra i vicini, che si scambiavano le pietanze la sera della vigilia, in modo da fare risultare, almeno un giorno l’anno, le tavole imbandite e ricche. Forse, nei cuori di ognuno si accendeva una luce che, sebbene fugace, serviva a ricordare ai credenti di essere figli di uno stesso Dio e ai non credenti di rispettare e amare il prossimo, chiunque esso fosse.
Massimo Conocchia