La mortadella suprema di Franco

Sollevato.

Il geometra Don Mario era proprio sollevato dopo il frazionamento a casa della famiglia Bufalini.

Proprio non se l’aspettava che fossero tanto taccagni e picinusi.

Don Mario scusatemi, non vi offendete, ma secondo me aviti e controllari megliu i simiti, ca mi pari ca u terrenu chi tocca a fràtima è de chiù, pe carità ammia a terra nunni ‘nteressa ma è pe ‘na questione e giustizia, sudamente pe ‘na questione e giustizia.”

Con questa scusa della presunta giustizia, la figlia minore, in piena aggressività felina, gli aveva fatto percorrere quel terreno decine di volte, in mezzo alle frasche, ai solchi pieni d’erba, ai piraini, rischiando di strapparsi il vestito buono cucito da Barilaro.

Santo Cielo! Più picinusi e Rafedu ‘e Ciciudu, chi per nu struosciu e catuoio, m’ha fatto jiri a lu catastu quattru juorni”, pensava, mentre sedeva sul muretto davanti alla Putiga di Giovannina e Franco, a Serricella, a gambe accavallate, e si levava il cappello, riponendo l’incartamento dei fogli del catasto con un senso di liberazione, ora che finalmente si era congedato dagli eredi Bufalini, che gli avevano ‘mmudicato a capa peggio dell’amico Ciccio, il quale parlava in continuazione anche a messa, sottovoce, perfino nel momento più commovente del Pater nostrum. Una sorta di incontinenza verbale che lo costringeva a seguire la messa in piedi accanto all’acquasantiera, col Cristo che sembrava rimproverarlo di stare in fondo alla Chiesa, anziché ai primi banchi, come la cognata Rita, sempre con la testa china riccioluta e labbra mormoranti preghiere, stretta nel tailleur color tabacco, sul quale il foulard a rose rallegrava la figura. Una bella figura in mezzo a tutte quelle vizzoche vestite di scuro, come Peppinella che ogni domenica imbrogliava il Credo a modo suo: “Oh Signore non sono degna di precipitare nella tua mensa ma dì soltanto una parola e io sarò scansata…”

Per essere inizio maggio faceva già caldo, alzò gli occhi al cielo colmo d’azzurro, vide i fili della luce muoversi sotto il peso di qualche uccello. A quella distanza non lo distingueva bene, sembrava una cornacchia, sì doveva essere una cornacchia che si crogiolava al sole, come lui.

Che cielo magnifico!

Gli veniva voglia di cantare una delle sue canzoni preferite La prima cosa bella.

Di tutte le meraviglie create da Dio, il cielo era quello che lo affascinava di più. Anche quando studiava dai Salesiani si incantava ore e ore col naso all’insù e con l’espressione adorante sotto il cielo invernale, convinto che prima o poi una stella gli sarebbe caduta addosso portandogli la soluzione delle versioni di latino.

Sotto un cielo così si sentiva più felice, si sentiva fortunato, si sentiva un profumino …

Mortadella…era mortadella.

Avvertì un languorino salirgli in gola. Del resto era quasi ora di pranzo. Aveva bevuto soltanto un caffè d’orzo a colazione e mangiato una mezza fetta di panettone dell’anno precedente dai Bufalini.

Lo prese il desiderio di farsi un panino, perciò abbandonò sul muretto le sue carte, ed entrò.

“Buongiorno Franco, m’avete fatto venire fame con ‘sto profumino di mortadella appena affettata.”

“A bellezza e Don Mario De Luca” esclamò mentre gli porgeva, come era solito fare con chiunque entrasse nel suo negozio mentre era all’affettatrice, una fettina di mortadella per l’assaggio, “oggi lavorate da queste parti?”

“Sì, sono venuto dai Bufalini per il frazionamento, ma per carità di Dio, parliamo d’altro che è meglio, m’hanno fatto nesceri pazzu. Meno male che è venerdì e domani mi riposo. Questa mortadella è buonissima, più buona di quella di Totonno ‘e Pudiciu. Fatemelo, per piacere, un panino e aggiungete pure il provolone piccante.”

“Voi sì che siete un intenditore”, spiegò Franco, questa non è una mortadella come le altre, è la mortadella con la emme maiuscola, la Fiorucci Suprema, la cinque stelle, la migliore sul mercato, ché voi non ci crederete ma perfino i bambini di terza elementare distinguono dalle altre marche, tanto è vero che l’unica volta che i panini della ricreazione sono stati preparati altrove, hanno mussidìato argomentando che non era buona e che preferivano la nostra, ti ricordi Giovannì?

La moglie, chiamata in causa, arrossì leggermente, annuì con un cenno del capo e col principio di un sorriso, poi posò gli occhi fugacemente sul geometra, infine li abbassò sulla campana di vetro che stava riempendo di caramelle Rossana, senza mai rompere il silenzio, senza cambiare posizione, concentrata, forse, su un pensiero prediletto, mentre il sole, entrato in negozio con l’arroganza della luce abbagliante del mezzogiorno, le rifletteva addosso tutto quel rosso rubino luccicante delle caramelle.

Si vedeva che fra i due coniugi c’era una grande intesa. Don Mario se ne rallegrò pensando a sua moglie Ninetta. La signora Giovannina aveva negli occhi la stessa luce verde di sua moglie, gli stessi capelli castano chiaro, tagliati corti.

Pagò le cento lire e diede il primo morso al panino ben imbottito di mortadella e provolone, quando apparve sulla soglia Cenzino, Mastru Cenzino e Pajjuzzu.

Di chi è il maggiolone bianco parcheggiato davanti al magazzino del Comune?” Chiese.

 “Ha bloccato la strada, proseguì con tono pacato, dopo una pausa, facendo tinnire un grosso mazzo di chiavi in mano.

Don Mario allargando le braccia con aria dispiaciuta, rispose: “Scusate è mio, ma che colpa ne ho se il magazzino del Comune si trova proprio nell’unico posto dove posso parcheggiare senza incontrare muri lampioni e alberi? E poi, devo essere sincero, detesto parcheggiare. Buonuomo sapete che facciamo? Vi dono le chiavi e provvedete voi a spostarlo, grazie, grazie assai.”

Consegnò le chiavi a Cenzino che lo guardava incredulo, abbozzando una smorfia di sorriso cordiale, senza replicare parola, continuando a mangiare in piedi, sotto i lampadari che pendevano dal soffitto, mettendo la mano sotto al panino per non fare cadere briciole a terra.

Frà questa mortadella è davvero suprema” proclamò sorridendo.

Aurora Luzzi

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