Un goccetto di vino
Cenzino ha settantasette anni e una castagna maligna attaccata alla prostata. Lui non lo sa, sa solo che deve curarsi perché ha degli esami sballati che vanno aggiustati con una terapia da farsi in ospedale ogni settimana. Vorrebbe farla a casa, ma la figlia che da quando è malato non lo abbandona un istante anche perché è mezzo sordo, gli ha spiegato che è più sicuro farla in ospedale e che per lei non è di nessun peso portarlo da Roggiano Gravina in città.
Non è tanto preoccupato per la malattia quanto per la dieta che gli hanno prescritto: niente peperoncino piccante, niente vino. E lui che il pipariellu uschentu lo metteva dappertutto, il vino lo accompagnava ad ogni pietanza, soffre molto per queste privazioni. L’unica domanda infatti che rivolge all’oncologa è se gli esami del sangue sono migliorati per farsi almeno un bicchiere di vino.
Padre e figlia partono presto dal paese. La Valle dell’Esaro dorme ancora, avvolta da un velo di foschia e le roggianelle mostrano l’acquatina sui rami e sulle foglie, luccicanti come gli occhi di una donna innamorata. Alice gli tiene la mano e lo precede per assicurarsi che poggi bene i piedi sugli scalini stretti della scala esterna alla casa, gli chiede se ha freddo, gli suggerisce di infilarsi la giacca ma Cenzino non ne vuole sapere, la tiene sul gomito. Prima di uscire la ragazza guarda l’effigie della Madonna di Pompei accanto al calendario, chiedendole in cuor suo di farlo guarire, Cenzino il ritratto della moglie, morta dieci anni prima di infarto, salutandola ad alta voce come è solito fare quando esce di casa “Angiulì ca nua jamu, ciao”.
La ragazza, nel frattempo che il padre fa la terapia, studia. Seduta sul muretto di fronte al reparto, piega la testa sul libro di Linguistica generale, ma a giudicare dall’espressione un po’ annoiata non deve piacerle molto. Non può allontanarsi per andare a sedere sulla panchina duecento metri più in là, perché quando chiameranno il padre dovrà entrare per fare da interprete. La giornata è fredda, stringe le spalle nella giacca di lana color nocciola. Si è pentita di non avere messo la sciarpa, pizzica l’aria in quell’angolo dove il sole arriva tardi. Ha occhi grandi e tristi, cerca conforto contemplando le foglie dei tigli che hanno ingiallito il viale.
Intanto Cenzino cambia posizione sulla sedia e lamenta il fatto che la dottoressa non lo ha ancora fatto entrare. L’infermiera Ludmilla, sentendolo brontolare, si avvicina, lo rassicura argomentando che fra un po’ sarà il suo turno, che comprende che è stanco ma in ospedale bisogna avere pazienza, tanta pazienza. L’uomo sbadiglia, è assonnato, si passa una mano sul collo, si allontana il colletto della camicia di flanella. Il cortisone gli provoca ondate di calore, anche in viso, visibilmente arrossato.
Squilla il cellulare, lo prende in mano per rispondere ma non centra il simbolo verde, se lo avvicina all’orecchio e inizia a parlare, riferisce a sua figlia che non è ancora il suo turno, che non ne può più di aspettare con questa benedetta mascherina che gli leva il respiro. Non sentendola parlare, si disorienta, il telefono continua a squillare, lo stacca quindi dall’orecchio e guarda con aria interrogativa la signora De Simone, seduta di fronte a lui, chiedendole che sta succedendo. La donna, contenta di potere uscire dal silenzio angosciante dell’attesa, sorride e gli fa cenno che deve puntare il dito sopra il segno verde. L’uomo finalmente lo trova e parla con la figlia. “Alice, bella e papà, nenti, ancora nenti”.
In quel momento esce finalmente l’avvenente dottoressa Stefania, fresca di messa in piega e di boccoli color dell’oro. Gli va incontro. Conosce i suoi problemi di deambulazione, perciò gli porge il braccio come farebbe col padre e gli parla con dolcezza, comunicandogli che ora farà entrare anche sua figlia.
Cenzino si illumina, la guarda come fosse una bottiglia di Gaglioppo pronta da bere.
Sicuramente le rivolgerà la stessa domanda “Dottorè sono migliorati gli esami per bere un goccetto del mio vino fatto in casa? non può farmi male, non metto manco il verderame.”
Aurora Luzzi