Il culto dei defunti in Calabria

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Il culto dei defunti nel Sud ha origini antichissime e ogni regione presenta connotazioni peculiari in questa pratica atavica. Fino a fine Ottocento – occorre precisare –  molti paesi erano sprovvisti di cimiteri. Sebbene Napoleone, nel 1804, con l’editto di Saint Cloud, stabilì che i defunti venissero sepolti fuori dai centri urbani, in luoghi arieggiati, nei centri rurali e nei paesi era diffusa l’usanza di seppellire i defunti nei campi vicino alle abitazioni. Le classi nobiliari e benestanti hanno mantenuto, fino ai primi del secolo scorso, la possibilità di essere sepolti in cripte di famiglia all’interno delle chiese. 

Ad Acri il cimitero è stato aperto a fine Ottocento e uno dei primi ad esservi seppellito fu Vincenzo Padula, del quale, però, si ignora dove sia la tomba (non è da escludere, che qualcuno abbia volutamente evitato che si conoscesse, nel tentativo di occultarne la memoria).

Il culto dei defunti variava da zona a zona e differenze vistose si potevano scorgere tra realtà come Acri e alcuni paesi arbreshe vicini. Uno degli elementi caratterizzanti il culto dei defunti nelle nostre realtà era una sorta di umanizzazione del morto, in virtù della quale si pensava di creare un filo diretto con l’estinto, che era in grado di sentire e percepire le azioni dei vivi. In virtù di questa convinzione, si era soliti, specie nel giorno della commemorazione dei defunti, preparare pietanze care al defunto, nella certezza che questi avesse gradito. Le anime dei morti ammazzati, si pensava che non trovassero pace fino a quando non fossero stati vendicati: si credeva che i loro spirito si aggirasse tra i vivi senza quiete.  In molte realtà, tra cui la nostra, durante la veglia si lasciava l’uscio di casa semiaperto, non solo per permettere a chiunque di far visita all’estinto ma anche per la convinzione che le anime degli altri defunti si recassero a visitare la salma.  Spesso il defunto era ritenuto una sorta di messaggero, tramite il quale si inviavano oggetti cari a un estinto. Una sorta di filo diretto, che serviva anche a chi restava a credere che non tutto fosse perso. Non parliamo, ancora, del valore che veniva dato ai sogni, ritenuti strumento grazie al quale il defunto comunicava coi superstiti.

Nei paesi di rito greco-bizantino, come i paesi albanesi, si era soliti, nel giorno dei defunti, recarsi a mangiare al cimitero, spesso in prossimità della tomba. Sempre in questi paesi, usava non accompagnare il defunto al cimitero. Si mettevano in mano all’estinto delle monete, che sarebbero dovute servire per pagare il pedaggio al traghettatore di anime.

In alcuni paesi delle ionio cosentino  si era soliti pagare delle donne che si recassero al cimitero per piangere. Non infrequentemente, nel giorno dei defunti, si assisteva in quei paesi a scene strazianti nelle quali le donne di famiglia non solo piangevano ma si graffiavano il volto con le unghie a mo’ di sfregio. In qualche caso le donne usavano ricoprirsi con uno scialle nero; mi capitò di osservarne una da ragazzo: eravamo in pieno agosto con un caldo torrido e chiesi a mia madre il perché di quello scialle pesante, che portava la donna. Mi sentii rispondere che così come il defunto caro alla signora consumava le sua membra sotto terra, così chi restava si lasciava consumare dal caldo e dal sole.

In definitiva, un misto di credenze, di riti e superstizioni, che connotavano un modo di rapportarsi con l’aldilà e, in una certa misura, di esorcizzare ciò che non si conosceva.

Massimo Conocchia

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