Quel filo valeva oro
Fino agli inizi del XX secolo la seta costituiva una delle fonti di guadagno della Calabria.
In Acri era detto “primo raccolto”, perché all’allevamento del baco da seta si dedicavano quasi tutte le donne, nella speranza di guadagnare e dare ‘n’ ammìentu (un sostegno) ai magri bilanci familiari. Le ragazze da marito speravano di poter guadagnare, per potersi “fare il corredo”.
A volte, però, l’allevamento andava a male. Una delle cause era l’allevamento fatto, generalmente sottotetto, alla mercé delle variazioni della temperatura e, quindi, delle malattie. I venti di scirocco e tramontana erano i più temuti, tanto che la sericante disperata cantava:
Mi ci ha curpàtu lu malu scirùoccu,
‘a tramuntàn’ ha ruvinàt’ a mia!
Proprio così: le speranze di poter realizzare quanto detto svanivano, malgrado l’allevatrice si fosse preoccupata di porre lo straccio di colore rosso, per neutralizzare affascino, malocchio, ecc. ma contro quei venti nulla poteva. Disperata cantava che le era rimasta l’èrrama fusia, ossia gli escrementi del baco misti ai frammenti di foglia di gelso.
Lei aveva posto attenzione anche al passaggio, vicino casa sua, della processione delle Rogazione, col prete, recitante la litania e le partecipanti, perché tutte donne, ripetenti: ora pro nobis (prega per noi). Sì, vi aveva posto attenzione, perché se avesse, per disgrazia, sentito pronunciare Santo Luca, lei sbiancando avrebbe continuato, mormorando: ‘U sìricu s’ammagliùca, ossia viene colpito da malattia. Altro santo recitato le metteva il terrore: Santo Marco (Santu Marcu) e con grande disappunto e disperazione le usciva dalle labbra il tremendo seguito: ‘U sìricu si ni ‘mmarca (Il baco da seta sparisce).
Si crederà eccessiva tanta preoccupazione, ma non lo era. Attorno all’allevamento del baco ruotavano più figure e se andava male era un vero problema per tutti.
Vi lavoravano le donne che andavano a raccogliere ‘u pàmpinu (la foglia di gelso), che costituiva il pasto del baco. Vi guadagnava il proprietario dei gelseti. Vi guadagnavano i proprietari delle filande e quanti vi lavoravano.
Per avere un’idea dell’importanza dell’allevamento in questione stralciamo qualcosa dalle lettere di Johann Heinrich Bartels, spedite dalla Calabria: “Si calcola che già nel sec. XVI l’ammontare della produzione della seta in Calabria fosse pari a 3 tonnellate d’oro. Ad imporre una prima gabella fu Carlo V nel 1542, allora, però, ci si limitò a soli cinque grana a libbra”.
E, ancora: “Nel sec. XVII per una libbra si pagavano 36 grana. Già allora si calcola che il profitto per il fisco reale ammontasse a 260.000 ducati napoletani, per taluni addirittura a 305.000 o 400.000 ducati”.
Nel 1817, il 30 maggio, in Cosenza, Andrea Lombardi, presidente della Sezione di Economia civile, in seno alla Società Economica di Calabria Citeriore, pronunciò un discorso, nel quale sottolineava:
“La seta è uno de’ principali prodotti, di cui possa pregiarsi la nostra Calabria. Se ne raccoglie una gran quantità ne’ Distretti di Cosenza, e di Paola è scarsa però e di picciolo momento la raccolta che fassene in quello di Castrovillari, scarsissima e da non mettersi a calcolo quella che si ottiene nel Distretto di Rossano. Un tempo questa industria era della più grande importanza; in oggi è sensibilmente diminuita sì per le vicende politiche che son corse, che per altre cagioni”.
Le vicende politiche erano quelle che avevano portato i Francesi a dominare nel regno di Napoli dal 1806 al 1815. Malgrado tutto, precisava l’oratore l’allevamento del baco e la conseguente vendita della seta faceva “entrare in ogni anno nella nostra Provincia delle somme considerevoli”.
E precisava che si producevano: “nel Comune di Paola delle stoffe di seta, che non erano prive di pregio; ma queste sono già decadute, ed appena ora in quel capo-luogo vi si lavora del cattivo matrasse, e pochissimo amuerre. In qualche altro Comune della Provincia si lavorano de’ rigatini, degli amuerri ordinarj, ed altri tessuti di seta e cotone, o di seta e lana; ma oltre che questi travagli sono in picciolissima quantità, non hanno alcun merito, e servono per lo più agli usi di quelle famiglie medesime, nel seno delle quali particolarmente si travagliano”
Si potrebbe continuare, ma ci dilungheremmo più del consentito, perciò, facciamo punto.
Giuseppe Abbruzzo