Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco

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Un lamento di un gatto straziante, poco fa: “Un gatto esploratore, forse troppo temerario, sarà rimasto chiuso in qualche locale. Ma dove? Non vorrei che fosse rinchiuso nel mio magazzino, a piano terra?”
Mi affaccio dal balcone e sento che il lamento proviene dallo spazio fra la mia casa e quella laterale.
Nell’altra costruzione, i finestroni delle scale non destano preoccupazione: “Se è lì, uscirà alla prima occasione”. Le altre serrande sono chiuse da tempo. Al secondo piano, solo le finestre della sede del PCI, di qualche decennio fa, lasciano vedere l’interno e le sedie accatastate in un locale.
Un pensiero allarmante: “Se qualcuno vi è entrato in questi giorni probabilmente vi avrà rinchiuso il gatto! Un bel problema: chi dovrei cercare per farlo uscire?”
In effetti, il lamento continuato faceva presagire la necessità dell’animale di chiedere aiuto all’esterno, dando sfogo a tutte le forze rimaste. Probabilmente era lì da troppo tempo e per i patimenti provocato dalla sete invocava qualcuno per ritornare libero.
Non era la prima volta che assistevo alla richiesta di aiuto di un gatto: una sera, uno andava barcollando per strada, dopo essere stato investito da un auto, e confidava solo sull’udito per orientarsi e per rivolgersi verso l’unico suono che sentiva, nonostante fosse un latrato di un cane a distanza! Una scena penosa che mi porto appresso da una trentina d’anni.
Poco più tardi, il lamento cessa e quando riprende è un po’ diverso: si accorcia e si allunga in modo casuale poi stride meccanicamente! “Ma questo non è il lamento di un gatto, questo è il rumore di una sega elettrica che sta tagliando!”
Infatti, poco distante c’è un falegname al lavoro. Meno male.
Francesco Foggia

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