Padula si ispirò ai canti popolari?

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Su un numero di “Confronto” ci siamo diffusi nel presentare Se io fossi mago, sonetto composto da Padula, nel 1844, e la “risposta” satirica di Vincenzo Gallo da Rogliano, detto il Chitarraro.

   Se fossi io mago! Un fresco zeffiretto

A gonfiarti le vesti io mi farei,

Le rose e i gigli a ti lambir del petto,

A confonder coi tuoi gli aliti miei.

   Se fossi io mago! Il lume diverrei,

Che, quando dormi, t’arde accanto al letto;

Da te nutrito e prigionier vivrei,

Cangiandomi nel tuo rosignoletto.

   Se fossi io mago! Nuvola leggera,

In grembo ti tôrrei quando all’aurora

Cogli nell’orto i fior di primavera.

Trarriaci il vento dalla terra fuora,

E tu, lontana da tua madr’austera,

Al tuo bel mago che diresti allora?

Ricordiamo che il sonetto fu pubblicato, il 1845, su Il Calabrese, periodico cosentino, fondato da Vitari, e subito si ebbe l’intervento di Vincenzo Gallo. Non vogliamo ritornare su quella diatriba, ma chiediamo: – Padula si ispirò ai canti popolari?-. Ne riportiamo qualcuno e lasciamo ogni giudizio agli attenti lettori.

In Napoli si cantava:

Vorria addiventà no soricillo,

ppe’ nce venì de sotto a sta vonnèlla.

Tanto vorrìa scavà co’ sto mussillo,

Finché trovarria l’uva moscarella.

Si cantava, ancora:

Vorrìa che fosse auciello che volasse

e che tu m’ incappasse alla gajola;

vorrìa che fosse Cola e che parlasse,

ppe’ cercare quattro ova a sta figliola;

vorrìa che fosse viento e che sciosciasse,

ppe te levà da capo la rezzola;

Vorrìa che fosse vufera e tozzasse,

ppe’ mettere paura a la figliola.

Cola era detto il corvo. La rizzòla era la reticella, nella quale usava, un tempo, raccogliere i capelli.

Sappiamo che Padula conosceva benissimo il seguente canto acritano, al quale premette ne Il Bruzio: “Teocrito ha dipinto i nostri antichi pastori, che d’inverno migravano come ora verso le marine di Cotrone; ed in una delle sue egloghe un pastore calabrese canta così: «O graziosa Amarilli, perché allora che io passo tu non porgi più la testa dalla apertura della tua grotta? Mi odii tu? Ho deforme il viso, inelegante la barba? O Ninfa! tu mi farai morire.

Ecco dieci pomi che io ti arreco. Gli ho colti sul medesimo albero che tu mi indicasti, e domani te ne porterò altri. O Ninfa, abbi pietà del mio affanno.

Ah perché non posso trasformarmi in quest’ape che ronza? Se così fosse, o ninfa, io penetrerei nel tuo speco, introducendomi a traverso le verdi frondi de l’ellere che lo  coprono…»”

Questa poesia è bella, ma Teocrito è un meschinissimo poeta a paragone del nostro pastore quando canta:

Vorrìa essari ‘nu milu, si potissi,

e dintr’ ‘u piettu tua ci giriassi!

Vorrìa essari seggia e tu sedissi,

ed iu ccu’ ‘ssi jinocchia ti jocassi!

Vorrìa essari tassa e tu vivissi,

ed iu ccu’ ‘ssi labbruzzi ti vasàssi!

Vorria essari liettu e tu dormissi,

ed iu lenzuli chi ti cummugliassi!

Vorrìa essari santu e pua murissi,

e tu ccu’ ‘ssi manuzzi mi pregassi!

Altro canto acritano, nel quale l’innamorato vorrebbe trasformarsi, per avere contatto con la sua bella, è il seguente, anch’esso conosciuto da Padula:

Oh, pecchì dintr’ a chilla finestrella

trasìri nu’ mi fai, mala fortuna?

Là dintra c’ èdi ‘na figliola bella,

ch’ ha dintr’ ‘u pìettu lu suli e la luna.

Mi vorra riventari rinninella,

ppe’ la jiri a trovari quann’ è sula:

lli vorra muzzicàri ‘na minnella,

cumu la vespa allu cùoccio de l’uva.

Non resta che arzigogolare e cercare di capire se il Nostro sia partito da questi canti a lui noti, per comporre Se io fossi mago.

Giuseppe Abbruzzo

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