Lo jus primae noctis

Lo jus primae noctis è realmente esistito? Tanti ne hanno scritto e tanti ne parlano.

Si dice, fra l’altro, che il feudatario pretendesse il diritto di dover possedere la sposa, la prima notte di nozze. Non sembri solo idea popolaresca. Francesco Saverio Giannotta, criticando gli abusi feudali, forse, per dirne in forma più odiosa, sembra avvalorare la diceria: “È ozioso il ricordare fino a qual punto si fossero cotali dritti portati, quando non si risparmiò l’onore delle famiglie col dritto feudale del connatico ‘Ius primae noctis’”. Evidentemente il suddetto non conosceva quanto si era verificato in epoca feudale nella sua regione, la Puglia.

Diversi autori propendono per la prestazione sessuale e altri confutano che si sia trattato di pura e semplice tassazione.

Allora una domanda è d’obbligo: Lo jus primae noctis,è stato realmente cessione della sposa nella prima notte di nozze, oppure era solo una forma di tassazione?

Vediamo di cosa si tratti attraverso qualche documento.

Giuseppe Maria Galanti, nella relazione sul regno di Napoli, a fine 700, scrive che fra le prestazioni ha trovato il “famoso diritto del connatico, che ha richiamato la generale attenzione, non si manca di esigere in questa provincia”, ossia la Calabria. Non si trattava, perciò, di quanto la fantasia popolare ha trasmesso, ma di una tassa, come evidenzia il citato autore: “In qualche feudo ho trovato che la maritata paga carlini quattro all’anno per l’uso del suo corpo, e la vedova paga meno per averne fatto uso”.

Si esigeva, in parole povere, una tassa sul rapporto coniugale. Ai giorni nostri sembra assurdo, ma è così.

Il Comune di Torrepadula (Lecce) si lamenta davanti alla Commissione per l’abolizione della feudalità: “fra i suddetti capi di gravame come sopra dedotti fu trascurato di dedursi eziandio il seguente, cioè che il ridetto ex barone pretende esigere nella indicata terra di Torrepaduli il vergognoso ed abbominevole diritto nominato della connatica esigendo dai sposi zitelli carlini quattro, e dai vedovi carlini due, locchè ripugna alle leggi istesse della natura e devesi per tutti i riguardi cancellare”.

Nel 1750, nell’apprezzo, per il Comune di Ruffano, che viene venduto ad altro feudatario si riporta un peggioramento dell’esazione: “Possiede ancora la baronal camera suddetta il jus del vassallaggio detto della cunnatica, per il quale è solito il barone esigere da ciascheduno de’ vassalli casato, e con moglie vivente annui carlini quattro, o che siano stati casati, o che in atto abitano in detta Terra, e dalle vedove annui carlini due, e tenendo ciascheduna di queste il figlio maschio, paga detti carlini due l’anno fintanto che detto suo figlio giunge alla maggior età, da qual tempo in avanti non è più tenuta la madre ad un tal pagamento, ma devesi quello fare dal detto di lui figlio, siccome pagavasi da suo padre”.

La tassazione non finiva qui. L’amore fra i coniugi doveva avere un suo prezzo, dovunque avvenisse. Così qualche barone faceva pagare una tassa a chi non dimorava con la sua sposa nel feudo di nascita, ma in altro.

La Chiesa non diceva: – Crescete e moltiplicatevi? – Ma, per assolvere ai doveri matrimoniali, chi abitava in una Università feudale (ribadiamo la donna che usava il suo corpo) doveva pagare. Non ci risulta che la Chiesa fosse mai intervenuta per evitare la tassazione sul “moltiplicarsi”. Come mai?

Anche perché Tommaso Gar in una memoria intitolata: Episodio del medio-evo trentino, scrive: “Cotesto stupido e ferino abuso, che offende la dignità umana nel sentimento più delicato, era stato assunto a quei tempi fra i diritti regali e non solamente si esercitava di fatto o nei casi più favorevoli redimevasi per danaro, ma figurava bruttamente anche nel gius pubblico di qualche estraneo principato ecclesiastico”.

C’è da augurarsi che i nostri abati-feudatari non fossero veramente da tanto!

Gli Acritani chiederanno: – Ad Acri esisteva questo jus? – La risposta è no, perché Acri non era Università feudale, ma demaniale, ossia regia. Per questo non era soggetta allo spregevole “abuso”.

Giuseppe Abbruzzo

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