Acri, ovvero della perduta centralità

A volte sono costretto a scavare nella nostalgia e nei ricordi per trovare immagini che soddisfino il desiderio di una piccola, operosa città, qual era Acri, fino agli anni Ottanta.

Una piccola città che arrivava a contare 24.000 abitanti residenti, una popolazione attiva, tanti giovani, molta vivacità culturale, intorno alla quale gravitavano almeno altri 15.000 abitanti dei centri vicini, con un Ospedale capace di erogare prestazioni sanitarie di buon livello e di una certa complessità, scuole professionali, licei molto frequentati e motori di iniziative e buona formazione civile e scolastica.

Oggi intravedo una società civile smarrita, attonita, richiusa su sestessa, impaurita dalle crisi e molto intimorita dalla pandemia, una società che sta procedendo ad una feroce e costante cancellazione della memoria collettiva, oltre che individuale, che risulta sempre più passiva di fronte all’assalto di un mondo in perenne corsa, proiettato verso una autodistruzione ecologica come inevitabile esito di una massificazione di consumi e modelli capitalistici.

Così che a volte mi sento spaesato in questo presente, mi mancano riferimenti, ho perso pezzi importanti di alcune certezze costruite a fatica da chi ci ha preceduto e che si era rimboccato le maniche per risalire la difficile china del difficile dopoguerra.

E’ cresciuta così una generazione di amministratori, e di cittadini che li hanno eletti, senza programmi, senza idee, senza buone bussole, senza piani di crescita intelligente, vomitando case su case, cemento che erode colline e montagne, che altera gli equilibri idrogeologici, aderendo ad una visione politica miope secondo la quale le opere pubbliche vanno fatte, non perché servono e qualcuno le userà, ma solo perché si riusciva a “fare arrivare finanziamenti da Roma” e oggi, sono tutte ridotte in condizioni pietose e senza manutenzione, oppure non finite, o peggio finite male.

Scuole fatiscenti, aule fredde e buie, tristi e senza la qualità architettonica originale, capace di costruire cittadini attenti al bello, uffici ricavati in edifici nati per altre funzioni e in cui passare una giornata di lavoro ti rende triste e svogliato, come a scuola del resto, una stazione autobus mai costruita né pensata, e quando parti e arrivi se fa freddo o caldo devi subirne le conseguenze. Automobili ovunque -anzi più automobili che persone- che non producono veri flussi di spostamenti e merci se non inquinamento, commercio ridotto al lumicino, nessuno compra più ad Acri, tanto meno gli acresi, niente spazi per la cultura e per i giovani davvero attrattivi, così che giovani e non si ammucchiano nei bar, niente mercato agricolo fiorente, eppure le aziende ci sono eccome, niente più artigiani, nemmeno più un calzolaio, niente, un specie di deserto che progressivamente perde forza, identità e centralità, per l’appunto.

Quando si pensava di farla crescere questa piccola città, fino agli anni Ottanta, si intravedeva una certa progettualità, sbagliata che fosse aveva una traccia, seguiva un percorso, si fissavano obbiettivi, che hanno prodotto quel poco che oggi resiste: Palazzo Sanseverino, Palazzo Padula e la Fondazione, tra tutti. Poi è partita una stagione di sussidi, di finanziamenti a perdere (come i vuoti che oggi ne sono traccia), una mancanza totale di progetti, di piani efficaci, anzi i piani urbanistici sono diventati inutili cartelle di archivio in cui raccogliere documenti necessari a giustificare meri atti burocratici. Si sono perse enormi occasioni di riconversione della città storica, di razionalizzare la rete delle frazioni e la viabilità, i servizi primari e secondari, i sistemi impiantistici, al punto che oggi a distanza di anni dal grande intervento acquedottistico della Cassa del Mezzogiorno, Acri ha problemi idrici. 

Una grande confusione ha alimentato, e alimenta tuttora, questa insana stagione, che da ormai oltre trent’anni ha tolto centralità ai territori come Acri, realtà che, oggi, sotto i colpi del Covidmostrano, non come sarebbe dovuto accadere le potenzialità, ma le croniche fragilità, le precarietà e ormai il declino come aree interne prima attive, oggi passive e declassate.

Acri paga un prezzo enorme al neoliberismo di classi politiche incapaci che hanno consentito la fuga e l’abbandono, piuttosto che il restare si è preferito alimentare il falso concetto che andare via è la vera libertà. Al contrario, come sostiene Vito Teti, libertà è poter restare e fecondare i luoghi di origine, libertà è poter contare e cambiare, non fuggire, libertà è democrazia attiva e fattiva, senso civico presente e sempre in guardia.

Oggi, che si potrebbe riprendere una parte di questa centralità, perché Covid tende a spingere tutti verso zone “neutre”, le “armi” sono spuntate e la centralità faticosa da riconquistare rischia di diventare un miraggio sempre più lontano. 

Ma l’inerzia dei cittadini, in tutto questo, resta il male peggiore e il danno più evidente alla perdita di centralità, il male più difficile da estirpare, quel male su cui prolifera ancora di più la vecchia politica delle clientele.

Pino Scaglione

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