La scatola
La didattica a distanza le aveva fatto venire la claustrofobia. Anche la claustrofobia, dopo il mal di schiena e una riduzione della vista. Perciò approfittando della bella giornata Mariarita si era seduta al balcone per concedersi un po’ di sole prima di affrontare il momento più ansiogeno del suo lavoro, la compilazione delle schede di valutazione. Nel suo eccesso di onestà intellettuale temeva sempre di fare un torto a qualche studente non dando il giusto. Come se fosse facile trovare la dose del giusto. Nemmeno nelle torte la trovava, figuriamoci nel giudizio dei suoi ragazzi. Allungò le gambe sulla ringhiera godendosi il panorama. La pioggia dei giorni precedenti aveva pulito l’aria, illimpidito il cielo e reso il verde delle piante sgargiante. I suoi ribes inondati dalla luce sembravano piccole pietre preziose. I bimbi della vicina saettavano in giardino all’inseguimento di una povera farfalla.
“Mamma mamma aiutaci ad acchiappare la farfalla.”
“Pasqualino, Mario, smettetela di correre, così fate un’altra bella sudata e vi beccata la bronchite. Non vi basta il mal di gola e la tosse? Venite subito a bere lo sciroppo.”
Alla parola sciroppo i due ragazzini si nascosero dietro la siepe di rosmarino sussurrando l’uno all’altro di tacere. La madre, appena venticinquenne, esausta, pallida, con i fiori di zucca in mano, la schiena esile curva sotto il peso del pancione sesto mese, lamentò con tono melodrammatico la stessa cosa che andava dicendo da due mesi.
“Sant’Angelo d’Acri fammi morire di coronavirus, ché è meglio.”
A questa esclamazione Mariarita scoppiò a ridere e decise di ritornare alla scrivania. Le sue griglie di valutazione l’aspettavano. Sedette in preda all’ansia preventiva come la chiamava suo marito Ciccio.
“Bibi” le avrebbe detto “rilassati.”
Se ci fosse stato.
Aveva il dono di rendere le cose facili e farla sorridere. Era diretto e intenso, con un grande amore per la giustizia, per i fatti storici, per la letteratura. Conosceva la Divina Commedia a memoria, e a Sartano, dove era nato, per questo lo chiamavano con ammirazione Treccani.
Al pensiero di lui gli occhi verdi divennero lucidi.
Accese il pc giocherellando col portamatite, ma l’anima era inquieta, testa era altrove, le idee bloccate. Come se non bastasse, i bambini della vicina continuavano con le loro voci insopportabilmente acute a lanciare maledizioni contro quel dannato sciroppo. Però non aveva voglia di chiudere il balcone perché da esso entravano anche il profumo del gelsomino di Adele, il chioccolìo dell’acqua della fontana, i passi delle casalinghe che scendevano al mercato per accaparrarsi le ultime ciliegie della stagione.
Pensava che forse le avrebbe giovato un giretto al mercato quando con un gesto brusco fece cadere tutte le matite a terra.
Porca miseria, tutte spuntate.
Le vennero in mente i versi di Petrarca
Quando ‘l colpo mortal là giù discese
Ove solea spuntarsi ogni saetta
Chinò la testa per raccoglierle quando vide la scatola, sotto lo stereo, accanto alle vecchie dispense del corso di inglese e i libri di fotografia. Era passato tanto tempo da quando l’aveva chiusa in maniera chirurgica e conservata nello studio. Tutti i momenti più felici della sua vita erano lì dentro, al riparo dal guasto maligno del tempo. Non poteva più indugiare. Doveva aprirla, poi avrebbe bevuto un tè verde e si sarebbe sentita meglio. Si alzò dalla scrivania e fece un giro attorno alla scatola come per esorcizzare il contenuto che si accingeva a riesumare. Si accasciò sul tappeto e incominciò a staccare il nastro, metri e metri di nastro, per sigillare chilometri di passato. Qualche pezzo le si incollò alla mano. Prelevò dal cestino una busta gialla e per liberarsi la mano avvolse il nastro attorno ad essa. Scartò il primo oggetto che le capitò in mano. Era I fiori del male di Baudelaire, il primo regalo che le aveva fatto Ciccio quando studiavano all’Università di Perugia ma non stavano ancora assieme, anzi all’epoca lui spasimava per la pianista belga e lei si prodigava per fargliela conoscere. Sotto al libro spuntava la foto originale di Ciccio che lo ritraeva dalle ginocchia in giù con i jeans e le scarpe da tennis bianche a piedi incrociati. La dedica d’amore nel virgolettato recitava “Da quando ti ho conosciuto ho perso la testa perciò accontentati dei piedi.”
Un’ondata di ricordi la investì, rivide loro due a spasso per Perugia, sempre assieme, dalle aule dell’Ateneo alla pasticceria Sandri in Corso Vannucci, ai giardini del parco, alle scale di Palazzo Priori, alla panchina dove si diedero il primo bacio.
“Cosa fai? Stai invadendo il mio spazio” le aveva detto guardandola con dolcezza prima di baciarla.
Si sentì mordere l’anima…come se una forza estranea le avesse lacerato la carne procurandole ferite talmente dolorose e continue da costringerla a piegarsi su sé stessa. Un principio di nausea le salì a vellicare in gola. Una lacrima le stava riempendo la palpebra. Cercò di trattenere quella stramaledetta lacrima. Si era illusa che tutti quei piccoli oggetti avessero perso la carica affettiva di un tempo, e invece no. Le procuravano una sensazione di tenerezza e calore. Doveva andare avanti. Tirò fuori le altre foto e i profumi. Quest’ultimi mai consegnati, uno per ogni Natale, uno per ogni compleanno. Il marito era morto da due lunghissimi anni. La loro felicità non era durata abbastanza. Che cosa straordinaria sarebbe, si diceva, imbottigliare la felicità per sempre, quando c’è, per conservarla e berne una sorsata in tempi bui in cui solo il silenzio echeggia in ogni stanza.
C’era anche la foto della loro prima vacanza al mare nel Salento.
Dio che assedio di emozioni!
Cosa non avrebbe dato per trovarsi con lui su quegli scogli assolati, inondati dall’odore di timo che il maestrale portava dallo Ionio, saliva lungo la pineta per addentrarsi nei luoghi più selvatici. Le sembrava di scorgere le pecore al pascolo fra le balle di fieno, che si stagliavano enormi davanti al mare. Quanto azzurro opalescente sulla terra marrone. Quanto futuro davanti, quanti progetti, ignari della cattiveria della sorte e convinti di potere invecchiare assieme. Era stata un’estate felice, senza nuvole, senza guasti, con la luce che precipitava perfino nei fossi.
Scattò in piedi e corse al balcone. Aveva bisogno d’aria. Un diluvio di luce le annebbiò la vista, costringendola a chiudere gli occhi, poi lentamente le immagini le vennero incontro: il campanile della Chiesa di San Francesco, il quartiere di Padia, l’amata collina sorridente di ginestre. Si rasserenò. I suoi occhi divennero verdazzurro marino intenso. La sua sofferenza si sciolse in quell’abbraccio di luce e bellezza.
Aurora Luzzi