Bella ciao
Da quando la sarta Consuelo aveva iniziato a cucire le mascherine da vendere, l’insonnia di Francesco si era aggravata.
Erano oramai due mesi che il povero professore Foggia non faceva una buona dormita in quanto alle cinque veniva puntualmente svegliato dall’inconfondibile ticchettio dal pedale elettrico della macchina da cucire, che Consuelo picchiava con una foga militaresca.
Quella donna era un generale mancato. Anche fisicamente: ottanta chilogrammi di muscoli e petto da medaglie e decorazioni. Lui non si era mai lamentato, sperando che la fine del covid-19 prima e la chiusura della stagione delle mascherine subito dopo, lo restituissero al più presto alla tranquilla vita da pensionato di prima, ai suoi studi idrogeologici sul fiume Mucone e quindi al privilegio del sonno. Aspettava il sonno come si aspetta un’amante.
“Frà la vuoi una mascherina?”
Non aveva nemmeno avuto il tempo di rispondere Sì grazie se non è troppo disturbo che aveva allungato la mano in forma questuante replicando Per te solo cinque euro, agli altri le faccio pagare dieci. Mi pago il rocchetto di filo, uso quello buono della Gutermann, non quello scadente del mercato.
Quella che sembrava una gentilezza era solo il gesto di un vile commercio. Proprio non se lo aspettava, perciò restando in silenzio e masticando imbarazzo si era affrettato a darle i soldi affinché quel contatto finisse al più presto, infastidito dalla situazione e ancor di più dall’ingratitudine di Consuelo alla quale spesso regalava i melograni, la marmellata, l’uva pizzutella della sua vigna che le piaceva tanto.
Ecco così impari Frà, si era detto, questa è una generalessa arida senza sentimento, peggio di un calcare cavernoso!
Il 25 aprile, per ragioni che conosceva solo lei, aveva iniziato a cucire prima del solito. Francesco sperava cucisse bandiere col tricolore da sventolare su tutti i balconi di via Marie Curie.
Il professore tentò di riaddormentarsi passando in rassegna immagini e ricordi felici, serrò gli occhi, si infilò i tappi, ficcò la testa sotto al cuscino varie volte ma nulla da fare, il sonno era volato via. Occhi spalancati come se avesse dormito nove ore, si sentiva fiacco e con la testa pesante. Spazientito balzò dal letto, risoluto ad andare in campagna per tagliare l’erba sotto gli ulivi a Serra di Buda.
Passò tutta la mattinata sulla collina a lavorare, sedendosi di tanto in tanto per ammirare davanti a sé nella vallata la campagna gialla di tarassaco inondata dal sole del mattino, in compagnia degli uccelli appollaiati sui fili della luce, respirando l’aria fresca che si riempiva dell’odore dell’erba appena tagliata mentre le montagne della Sila si facevano sempre più nitide e blu all’orizzonte.
Lo commuovevano tutto quello spazio davanti e tutta quella quiete: uno dei punti più panoramici del paese, come sospeso nel tempo, talmente bello da dissuggellare dal dolore e unire lo spirito alla gioia. Insomma un posto dove gli veniva quasi voglia di scrivere poesie se solo ne fosse stato capace.
Vinto dalla stanchezza tornò a casa che era quasi ora di pranzo. Si infilò sotto la doccia meditando di tagliarsi i capelli.
Se lo faceva Conte poteva farlo anche lui, non serviva certo un master al MIT per dare una sfoltitura a quel cespuglio di capelli che gli ornava la testa come un cavolfiore spampanato. Effettivamente non fu un’operazione difficile, con due specchi se la cavò, cedette perfino alla leggerezza di mostrarsi in foto ai suoi amici su Facebook con i capelli corti e ordinati.
Aveva un certo languorino, bisognava mettersi ai fornelli.
Iniziò a lavare i pomodori piccadilly per farsi un bel sughetto per la pasta. Ne aveva proprio voglia. Accese il gas sotto la pentola dell’acqua riflettendo sul post che avrebbe voluto pubblicare su Facebook.
Lo aveva intitolato “I VALORI DEMOCRATICI SI COLTIVANO E DIFENDONO SEMPRE”, usando la maiuscola apposta per dare maggiore enfasi al contenuto.
Era ancora incerto se farlo, non voleva innescare eventuali stupide reazioni di qualche nostalgico del fascismo, sempre in agguato e pronto ad aprire la bocca per vomitare slogan e pareri altrui non usando nessuna buona argomentazione.
Peccato che ad Acri fossero un po’ apatici e non riuscivano mai a organizzare eventi di un certo spessore per il 25 Aprile, certo ora era tutto sospeso a causa della pandemia ma urgeva una riflessione collettiva e condivisa sul valore della Liberazione, accompagnata da eventi, seminari, incontri con partigiani che potessero portare la loro testimonianza di lotta e resistenza, non ci si poteva rassegnare alla solita manifestazione celebrativa con un esiguo corteo, capeggiato dalle autorità che sfilavano per il centro storico portando la corona di fiori davanti al Monumento ai Caduti, seguite dalla banda musicale. Un paese che trascura la propria storia e la propria identità è un paese debole.
Gli piaceva il “FacciaLibro”. Da quando si era iscritto aveva fatto amicizia con tanta gente interessante con la quale condivideva opinioni politiche, ricette di marmellate, ricerche bibliografiche. Inoltre aveva recuperato anche un bel po’ di suoi ex studenti. Oramai aveva quasi più amici sul social che nella vita vera.
Calò le penne rigate, stappò il vino, una bottiglia Riserva delle Cantine di San Pancrazio. La giornata esigeva un vino speciale.
Intanto che il vino decantava, apparecchiò sul tavolino in balcone. Spiegò la bandiera che il vento aveva attorcigliato. L’unica bandiera in tutta la via. Era stata una mezza impresa recuperarla. Si era messo in moto tre giorni prima. Dapprima l’aveva cercata nell’ex sede dell’Ulivo, ma lì in quel pianterreno polveroso e umido aveva rinvenuto bandiere dell’Ulivo, della Margherita, dei Democratici di Sinistra, dell’Asinello, ma nemmeno una bandiera tricolore. Poi a casa di sua madre, ma anche lì senza successo. Il giorno dopo ne aveva recuperata una alla Germinal allegata al CorSera ma era troppo piccola, poco più di un fazzoletto, infine si era risoluto a comprarne un’altra a Tutto casa, una seria di oltre un metro che aveva issato alla ringhiera di ferro con qualche difficoltà a causa del vento.
Sistemò la radio sul davanzale della finestra, sintonizzandola su Radio Uno e sperando che dessero Bella ciao affinché potesse diffonderla in tutta la strada.
Di fronte, la signora Lin stendeva i panni, in maniche corte malgrado la temperatura non propriamente estiva. Da quando il suo emporio era chiuso, stendeva panni tutti i santi giorni, o non faceva il bucato da anni o era la donna più pulita del pianeta! Lo salutò con un cenno del capo. Lui rispose con la mano.
Cominciò a sgranocchiare un pezzo di pane. Si versò un sorso di vino. “Eccellente, è proprio eccellente”, commentò a sé stesso guardando il liquido rosso rubino all’interno del calice.
Il timer suonò informandolo che la pasta doveva essere cotta.
Rientrò in casa e senza assaggiarla la scolò al volo, impiattò versandovi sopra tutto il sugo, aggiunse un po’ di basilico fresco, quindi portò il piatto a tavola e cominciò a mangiare con un piacere visibile sotto lo sguardo della signora cinese che lo fissava leggermente stranita.
Dopo la seconda forchettata, poiché Radio Uno trasmetteva di tutto tranne Bella Ciao, si decise a cercarla su Youtube col cellulare. Ne apparvero varie interpretazioni, scelse quella dei Modena City Ramblers, il gruppo preferito da suo nipote. Alzò il volume mentre il vento scherzava con la sua bandiera e i suoi trentasei calzini neri.
Che straordinaria canzone.
Questa non è, si disse, una canzone come tutte le altre, ma La canzone. Avrebbero dovuto cantarla a squarciagola tutti in coro dalle finestre e dai balconi di ogni strada di ogni città del mondo, perché Bella Ciao è un patrimonio universale dell’umanità, un canto meraviglioso di ribellione contro ogni forma di fascismo, di prevaricazione, violazione dei diritti e della libertà dell’uomo, un vero inno alla libertà in ogni sua forma.
Dall’emozione gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Guardava la bandiera. Era proprio una bella bandiera. A sua madre sarebbe piaciuta.
Aurora Luzzi