Scomparso Ezio Bosso. L’intervista rilasciata a Ofelia Sisca

Agli amici e colleghi ‒ per lui non c’è grande differenza ‒ che gli telefonano dice simpaticamente che perfino per chiedere l’elemosina un musicista deve esibirsi. In qualche modo dunque si dovrà tornare a suonare! Lo incontriamo da lontano anche noi, ma la fermezza delle parole di Ezio Bosso (Torino, 1971) non teme la distanza.

È riuscito ad avvicinare il grande pubblico alla musica classica, e non in maniera edulcorata o semplificata, ma nella sua versione più pura e integrale, quella ritenuta più ostica. I numeri di Che storia è la musica, programma da lei ideato per Radio3, ne sono un esempio lampante. Quali sono gli ingredienti di questi risultati?
Il rispetto è il motore di ogni risultato straordinario e l’amore per quello che fai. Il rispetto per la musica, ma anche il rispetto per l’altro. Il fatto di non avere una preparazione accademica, appannaggio di pochi ‒ pochissimi considerati anche quelli che la millantano ‒ non vuol dire avere un minore valore. La partitura musicale ci insegna proprio questo, tutti davanti allo spartito diventiamo piccoli e uguali, dottoroni e operai. Beethoven, Brahms, nessuno è svantaggiato, preferito, agevolato. Siamo uguali e abbiamo uguali potenzialità.

Crede sia necessaria una componente umana di condivisione che permetta all’ascoltatore, alla persona comune, di approcciarsi con meno diffidenza all’universo classico?
Per natura sono portato a pensare che se ho un giardino meraviglioso la porta la tengo aperta. Quello che faccio è raccontare, e lo faccio con la gente comune così come con i musicisti, do loro le motivazioni che determinano i perché, ad esempio perché un compositore vada suonato o ascoltato diversamente da un altro. Tecnicamente, ma anche attraverso aneddoti e chiedendo al diretto interessato qual è la sua sensazione. È un metodo empatico, empirico, ma la musica è fondata su questo. Non sopporto la supponenza che sembra dover obbligatoriamente permeare il mondo della musica classica. Il musicista dovrebbe essere sempre umile, nel momento in cui crede di essere superiore agli altri ha smesso di essere un buon musicista.

Qual è il peso delle responsabilità pubblica e dei mezzi di comunicazione rispetto alla divulgazione della cultura, della musica classica e delle arti performative che ne condividono la sorte in qualche modo?
Nel caso della mia esperienza, in Rai il direttore Coletta si è trovato concorde con le mie proposte e abbiamo lavorato bene. In generale è sotto gli occhi di tutti che i media, la televisione, che nonostante le nuove frontiere della comunicazione in Italia detiene ancora un ruolo informativo determinante, non prestano l’attenzione che meriterebbe al settore, e non parlo dei canali tematici, ma di quella considerazione quotidiana, che permetterebbe di ridare alla musica, alla cultura, quel ruolo integrato nella vita sociale dei cittadini. I modi per farlo ci sono. Ed è comprovato, come visto per la musica classica, che l’elitarismo può essere solo controproducente. Il concorso di colpe nell’involuzione delle cose è uguale solo al concorso di pregi nella loro evoluzione.

Azzardo questa citazione anche se so che lei è un beethoveniano convinto. Stravinskij diceva di ascoltare Beethoven ogni settimana, Bach due volte a settimana, ma Mozart ogni giorno. La musica non solo accompagna, ma può determinare e dare senso al percorso delle nostre giornate, dettare i tempi della nostra intera esistenza?
Come fenomeno ricreativo già lo fa, è pochissima la gente che non ascolta musica, tuttavia sembra che non riusciamo più a discernere tra quello che è intrattenimento e quello che invece è vitale, o più poeticamente è il cibo per l’anima. Cosa vuol dire in termini pratici? Riconoscere quanta importanza ricopre l’interrogarsi sui perché della musica. Stravinskij in qualche modo ci dice che abbiamo bisogno della musica (anche se simpaticamente mi permetto di dissentire, bisogna ascoltare tutto, soprattutto Beethoven!). Di natura tutti noi andiamo alla ricerca di musica. Il problema è l’offerta. Se io vado in cerca di pomodori, ma trovo solo arance, mangerò solo arance. L’offerta deve essere vasta, libera ed educata, insomma se c’è una cosa che la musica non fa è inquinare! Abbiamo bisogno di grandi quantità di musica, e insieme di un’educazione che permetta di capirne la rilevanza.

L’Associazione Mozart14 di cui è testimone e ambasciatore internazionale, oggi diretta da Alessandra Abbado, è fondata sui principi sociali ed educativi del maestro Claudio Abbado. Quali sono i valori di cui lei si fa portavoce?
I valori che ho imparato dai grandi musicisti come Claudio Abbado, con i quali sono cresciuto, come uomo e come musicista, sono gli stessi che porto avanti oggi, primo fra tutti quello della musica come coadiuvante sociale. La necessità della musica è evidente quando ad esempio si guarda ai cori dei detenuti, dai quali emergono dati oggettivi sull’aumento del benessere, di miglioramento persino comportamentale. È un po’come scoprire l’acqua calda dirai, tuttavia non è facile essere riconosciuti. E questo vale per la musica e per l’arte in genere, è difficile affermare anche l’ovvio quando istituzionalmente si stenta ad affermarsi.

Quindi come società siamo indietro sul percorso della comprensione e assimilazione di questi valori?
La musica non è solo ascolto, ma una pratica attiva, vedi cantare insieme ad esempio, o la musicoterapia; insomma la musica riesce a portare la società perfino in quei contesti dove la socialità è negata. Io credo nella musica, perché la musica ti cambia la vita, di più, ti salva la vita, e io ne sono un esempio. Quando però si vedono le tante realtà come Mozart14 lasciate sole con le proprie forze, mi viene da pensare che nonostante i risultati oggettivi ancora molti non credono nella musica.

L’orchestra può essere considerata un esempio di società in miniatura?
La musica mi ha regalato una vita meravigliosa, che secondo certi stilemi non avrei dovuto vivere. Il figlio di operaio fa l’operaio, questo mi sono sentito dire sin da bambino. E la musica ha abbattuto anche questo pregiudizio idiota. Che però ancora c’è. Quindi intanto in generale la musica ha il potere di liberare. Poi l’orchestra è assolutamente una forma rodata e funzionante di società ideale.

Cosa possiamo imparare dall’orchestra in termini civili?
Quello che possiamo imparare dall’orchestra, attenzione, da una buona orchestra, e voglio citare a chiare lettere l’esempio della Europe Philharmonic Orchestra, è intanto il principio della meritocrazia. Ma non la meritocrazia del vincitore, perché spesso confondiamo la meritocrazia con la vittoria della gara, no! Intendo la meritocrazia delle competenze, quella competenza che non porta alla competizione, ma al mutuo soccorso, continuo. Cioè: io riconosco la competenza dell’altro, le sue peculiarità e mi affido e allo stesso tempo a mia volta aiuto. Dall’ultimo dei violini al primo dei flauti, ogni strumento ha peculiarità tecniche e personali diverse che vengono rispettate fino ad arrivare al direttore. Nell’orchestra ideale, grazie alla partitura, non ci sono ‘raccomandati’. Questa è la natura dell’orchestra. Proprio per questo mi fa sempre piacere aprire le prove, dalla prima prova, per mettere davanti agli occhi di tutti la centralità del dialogo, del raccordo delle parti. Ovviamente ogni modello può essere deviato, e questo purtroppo accade, anche nel mondo dell’orchestra, soprattutto quando c’è incompetenza.

Non possiamo non parlare della situazione attuale di isolamento. Ognuno di noi è invitato alla riflessione e l’arte e la cultura sembrano fungere da accompagnamento di fondo. Iniziative social, dal teatro ai concerti, dalle grandi mostre online ai piccoli spazi che si associano, hanno l’aria di espedienti terapeutici per alleggerire pensieri di certo gravosi. Che posizione ha in merito? Arte effetto placebo o ci vede delle prospettive?
Quello che è diventato insostenibile è questa retorica assurda sullo stare a casa, sulla bellezza del riprenderci la nostra interiorità e quant’altro, quando la verità è che siamo soli, senza musica, senza la presenza reciproca. Per di più in un’orchestra come quella che dirigo è importante non solo suonare insieme, ma anche mangiare insieme.
È un principio anarchico, in cui la responsabilità del singolo diventa la responsabilità di una comunità. Ma la cosa più drammatica in questo momento negata ai musicisti è il non poter provare!

Mancano le prove più dei concerti?
La musica è fatta principalmente di prove, non di concerti. Questa privazione sta addolorando tutti i musicisti. Prova non vuol dire provare a fare, ma mettere alla prova ciò che hai studiato, tutto il tuo sapere, le tue idee, provare se funzionano insieme agli altri. Il valore sociale dell’aggregazione, negato in questo momento di cattività, causa profondo disagio. Anche i piccoli video che circolano sono comprensibili e utili, degli sfoghi diciamo. Quello a cui invito però è a fare attenzione, perché tutti questi video da casa sembrano dire che la musica te la puoi fare da solo, e la funzione si relega a quella di far passare il tempo, in un momento in cui il tempo non passa. Ma la musica ha un valore profondo, così l’arte, il teatro. Non svalutiamo la qualità. La cura. Non dobbiamo mandare all’aria tutto, relegando l’arte a mero accompagnamento di una vita presunta altra e ‘reale’.

In questa famosa Fase 2 i settori produttivi stanno man mano riaprendo, ma per arte e spettacolo si vocifera di una ripresa che potrebbe addirittura slittare all’anno prossimo e oltre. Si sta smascherando nel Paese della cultura per eccellenza una leggerezza pericolosa?
Mi chiedo se manchi la visione di un Paese. Tralasciare la musica vuol dire non riconoscere la storia di questo Paese. Fatta di musica, di arte, di teatro. Se non riconosco intanto questo vuol dire che non ho visione sociale del Paese. Tutto sembra essere diviso per compartimenti economici. E anche in quest’ottica si potrebbe rispondere che 500mila lavoratori e la relativa movimentazione di denaro connessa fanno anche del settore dello spettacolo un reparto economico, eccome. Quindi torno a dire che forse è proprio la visione in genere che manca; se penso ai 460.000.000 del FUS, mi interrogo su quanti FUS dovrebbero esistere per far fronte alle reali necessità solo del settore delle arti performative. È scellerato.

Quanto ci potrebbe costare la scarsa prospettiva?
Potrebbe costarci soprattutto la perdita dell’ethos. L’ethos è l’insieme delle cose che creano un ambiente favorevole alla vita di un essere vivente. Sentiamo dire che ormai questo virus è un fenomeno che è entrato nella nostra prassi quotidiana, insomma nel nostro ethos. Ma quanti virus ci sono ormai nel nostro ethos? Dobbiamo assolutamente riconoscere che il benessere di un essere umano non è solo una pastiglia o un vaccino. È fatto anche di sole, di saluti, di musica, di arte, di sentirci tutti uguali. Un’altra banalità che stiamo sentendo è che il virus ci rende tutti uguali, ma non è così, c’è chi ha una bella casa, e chi sta in cinque in quaranta metri quadrati.
L’emergenza sanitaria c’è, ma anche questa nuova realtà va raccontata, sì alla disciplina nel gestirla, ma chi più di un artista conosce la disciplina!? È tra i valori fondanti della propria quotidianità.

Il Cura Italia presta attenzione a ‘tappare i buchi’, per cultura e spettacolo: per lo più si va dal rimborso biglietti per gli utenti ai sussidi per i lavoratori dello spettacolo, ma quali sono le progettualità future? Vede un piano B, possiamo immaginare un domani?
Se il domani lo posso immaginare? Il domani lo posso e lo devo immaginare, e progettarlo finché quel giorno non arriva, ma se io penso che il domani sia un oggi reiterato, fatto di non realtà, chiusi in casa, io non sto immaginando un domani. La responsabilità di chi amministra, ma anche mia, è quella di continuare a immaginare un domani, che sia peggiore o migliore forse addirittura non importa, ma che sia un progetto che punti a modificare l’inattività attuale, e che soprattutto porti all’espressione della natura umana, e non alla rassegnazione a una ‘nuova normalità’, che è un concetto aberrante, perché la normalità non esiste, esiste la natura delle cose! Ed è nella natura dell’uomo vivere socialmente.

Ci sono delle azioni che già oggi si possono intraprendere per non far precipitare definitivamente la situazione?
Intanto non fare dichiarazioni criminali con le quali si rimanda ogni possibile ripresa delle attività al 2021, anche seguendo i progressi della scienza possiamo studiare formule verosimili di riapertura. Io non arrivo a capire perché possono stare 2000 persone a lavorare nella stessa fabbrica e non 300 persone a distanza di sicurezza ad ascoltare la musica. Disconosco quelle interviste attribuitemi in cui la chiosa sembra sempre dover finire nella retorica e nel dopotutto è giusto così…

Scarsa lungimiranza o disinteresse per il settore cultura? Incapacità o malafede?
Dovrei dare una risposta un po’da opinionista, e non saprei proprio farlo. Quello che mi sento di dire è che quando si ha paura si tende a stare immobili e a eliminare ciò che si pensa superfluo, ma per me è un concetto così lontano pensare la cultura superflua. Ritengo l’arte o la musica chiaramente una necessità, non riesco a concepire qualcuno che né scientemente né incurantemente possa eliminare questo a favore di altro.

Pensa di impegnarsi in prima persona per portare queste urgenze alle orecchie delle istituzioni?
Mi sono offerto di fare da consulente, di mettere a disposizione le mie competenze, ma non vengo ascoltato, per cui continuo a fare il beone da casa! Per me non basta prestare attenzione al futuro delle fondazioni lirico sinfoniche. Siamo mezzo milione di lavoratori e non si può essere tutti dipendenti delle decisioni che prenderanno le fondazioni, bisogna distinguere. Ci sono società di concerti, istituzioni concertistiche orchestrali, l’Italia non è fatta solo di teatri d’opera, che pure hanno tutto il mio rispetto, ma non sono la totalità. C’è anche Vivaldi, non solo Puccini e Verdi. Forse sono troppo poche, hanno una mole di gestione troppo vasta, anche questa è una prospettiva del problema. Ecco, non dimentichiamo di guardarci intorno.

 “La musica è una vera magia, non a caso i direttori hanno la bacchetta come i maghi”, parole sue. Ci vorrebbe la bacchetta magica proprio ora?
Vivere è una cosa pratica, a volte anche faticosa, non una favoletta, e per usare quella bacchetta, che sia magica o meno, bisogna fare tanta fatica. Una cosa la so per certo, a tutte le peggiori nefandezze che sono successe nel nostro Paese nei secoli l’arte è sopravvissuta, questo deve farci trovare la forza, e quel puntino di luce che si sprigiona all’apice della bacchetta ci può dare la forza per sopravvivere, o meglio, di vivere! Vivere sempre come pratica quotidiana, non come poesiola. Vivere è un impegno quotidiano, fare arte è un impegno quotidiano, fare musica è un impegno quotidiano.

Ofelia Sisca

Fonte: Artribune

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