Andare, tornare, restare
Prima di questa lunga emergenza dettata dal virus e dalla conseguente pandemia, i miei spostamenti dal nord al sud erano mensili. Finito il semestre didattico in università, gli impegni accademici meno pressanti, ero riuscito a garantire quasi un regolare andare e tornare che mi ha consentito di essere attivamente presente, nei modi più diversi, nella vita della mia comunità di origine.
Prima da Trento, poi da Milano, alle sei o alle otto, sempre di mattino, diretto all’aeroporto per raggiungere quello di Lamezia Terme, mi accompagnava la luce delle Alpi, limpida, mi preparavo al nuovo viaggio verso la terra di origine, dove arrivavo in circa due ore.
Ogni volta la preparazione iniziava con anticipo, cercando di entrare in quel percorso mentale ed emotivo che serviva a predispormi, immaginando come avrei trovato le terre calabre, in quale stato e condizione, da quando le avevo lasciate durante l’ultimo scorcio dell’estate o di primo autunno, inverno o primavera. Periodi in cui il ricongiungimento e il distacco sono segnati da pause lunghe, brevi, o prolungati soggiorni.
Poi, ogni volta che arrivavo, e spero arriverò appena possibile, sempre comunque con un pizzico di emozione mista a disagio, l’aeroporto di Lamezia, sistemato, come d’obbligo qui con aggiunte posticce, è l’ultima connessione con il resto del mondo, prima della immersione profonda nei riti e nelle abitudini, costumi e culture locali. Diverse, profondamente, dal resto di quelle italiane.
Vivere, insegnare in terre alte vicina all’Europa -la Lombardia, il Trentino- ed esser nati in una terra meridiana -la Calabria, lontana dall’Europa- comporta degli sdoppiamenti faticosi, con ricorsi frequenti a indossare e svestire i panni non sempre comodi di “Jekill e Hide”.
Comporta inoltre con assiduità, quasi quotidiana, il ritrovare le maniere per continui ricongiungimenti e distacchi, faticosi e dolorosi a volte: da un lato lasci la tua vita di ogni giorno, attuale, pulsante e viva di relazioni, attività e interessi, dall’altra ritrovi quella delle radici, degli affetti sanguigni, del tuo cibo e del tuo universo di segni verbali, di amicizie antiche, della tua natura e delle tue profonde contraddizioni, malesseri profondi, misti a benessere mediterraneo.
Il virus ha stravolto anche questo ritmo, questa frequenza necessaria, questa relazione, un flusso di azioni, ma non dei pensieri, ha cambiato la mia aspettativa di raggiungere, oggi, un luogo meno pandemico, di stare a contatto con quella natura, maltrattata, ma ancora efficacemente viva, che ha salvato e salva tanti dal contagio, di separarmi dal caos urbano che malgrado il lockdown non è mai cessato nella Milano dove i decessi salgono tuttora.
Come cambieranno dunque, spostamenti, relazioni?
Ci concentreremo su ciò che di prezioso abbiamo attorno senza dover più cercare mete distanti?
Finiranno i flussi migratori dei giovani, e di quelli come me che ambiscono una nuova stanzialità, e che non dovranno piú abbandonare i luoghi natali?
Troveremo le opportunità per una vita dignitosa senza doverci allontanare dagli affetti, dal vissuto, dalle possibilità e potenzialità che potranno riemergere al Sud?
Mi piacerebbe si capovolgessero i ruoli e che a tutti, oggi, fosse consentito non solo tornare al Sud, ma vivere al Sud, e capire cosa possa significare partire da una casa per non poterci tornare, a volte, mai piú… Non occorre poi molto oltre quello che sta accadendo, ma creare le condizioni perché ciò possa accadere davvero.
Questa riflessione nasce sia dai desideri, che dagli andirivieni: dall’esserci, senza dover fuggire al contempo, dalla volontà di non abbandonare, ma staccarsi emotivamente, dal voler tornare e una volta giunti, forse restare, e poter anche ripartire, ma sapendo che non sarà il tuo luogo a mandarti via, ma una tua scelta semmai.
Un flusso di pensieri che scaturisce dal desiderio di raccogliere, tanto con rabbia quanto con lucidità, il testimone di quanti lo hanno passato, interpretando così il pensiero di molti “fuggitivi”, o di chi è rimasto, di chi vuole tornare per restare, dando voce a tutti. Dal tentare di costruire una diversa permanenza, restanze e ritorni, che ci sollevino dal disagio -a tratti cronico e insito nell’animo mediterraneo- e ci faccia essere presenti anche nell’assenza. Un gioco arduo, difficile, sempre sul filo del rasoio e molto rischioso, ma alla fine fondamentale per la sopravvivenza di un complesso universo affettivo, emozionale, intellettuale, culturale.
L’aereo, il treno, il volo, il viaggio in auto, l’attraversamento di paesaggi, l’incrocio di persone, di città e centri, di luoghi noti e meno noti, prima dell’arrivo, sono il momento di sospensione durante il quale si avvia uno strano processo di riordino e riallineamento dei pensieri e dei ricordi, si riannoda un itinerario vissuto e percorso tante altre volte, si inizia una preparazione a rientrare nei ritmi e nei canoni di “quel posto” che ti aspetta, e che si spera, ti accolga.
Appartengo ad una generazione nata in Calabria nell’ultimo scorcio degli anni Cinquanta, una generazione che da adolescente non aveva quasi nulla se non l’affetto e l’incoraggiamento dei genitori, la bellezza dei luoghi, ancora intatta, la forza di emergere. In pratica, rispetto ai giovani di oggi, ci mancava tutto, e malgrado ciò, con coraggio e ostinazione, costruivamo futuri.
Oggi, anche in questa lunga e incerta crisi, continuo a costruire e sognare futuri, a disegnare visioni, a immaginare che sud e nord siano diversi, ma “obbligati” ad un necessario ricongiungimento.
Pino Scaglione