Diario dalla trincea 3: tra memorie e realtà
3 Aprile, ore 8:00. Inizia il turno nel reparto covid. Il primo atto è il computo dei morti nella notte: tre, metà rispetto al giorno precedente. Tra di essi un poco più che sessantenne. Il passo successivo è un rapido passaggio di consegne, con individuazione dei possibili dimessi: cinque, buon segnale. Anche gli accessi al DEA si sono ridotti rispetto al giorno precedente. Questi dati sono sufficienti per riprendere mordente e affrontare la giornata. Il reparto ha cambiato aspetto in questi giorni; ha assunto le sembianze di un universo antropomorfo, parallelo rispetto a quello precedente, nel quale valori e disvalori si mescolano, rendendo la prospettiva un po’ offuscata. In questa “nebbia” la mente si confonde e con essa la realtà presente, dalla quale si vorrebbe fuggire, per abbandonarsi a ricordi lontani e non pertinenti. Una sorta di rifugio da uno stato presente opprimente. Velocissimi flash affollano i miei pensieri. Ricordi d’infanzia, mio padre, austero e fiero del suo modo di porsi, a volte severo ma buono nell’animo. Non il pensiero della morte mi opprime ma il ricordo dei tempi andati. Occasioni perdute, ostinazione. Da adolescente rifiutavo i tentativi paterni di avviarmi sulla sua strada. Evitavo persino di passare davanti alla macelleria nelle mie rare uscite, per paura di essere coinvolto in qualche lavoro. Il rifiuto si tramutò per un po’ in silenzio e direzione opposte, fino a quando lui non accettò il fatto che io mi avviassi su altre strade. Molti anni dopo mi sono ritrovato ad assumere con mio figlio lo stesso atteggiamento di mio padre, reso più grave dalla presunzione di essere diverso. Sono stato ripagato con la stessa moneta. Solo in queste ore mi capita di pensarci. D’un tratto una voce mi richiama alla realtà. Mi rimetto camice, doppi guanti, mascherina, casco e calzari e mi avvio ripensando al senso di quelle memorie nell’attuale contesto di desolazione e morte. Ho concluso che, riconoscendo come mia la prospettiva originaria di mio padre, è come se, in questa confessione, la ferita si suturasse. È come se questo dramma mi avesse portato a ripercorrere i sentieri scoscesi del mio vissuto in un tentativo di pacificazione. Forse, inconsciamente, la paura della morte ci fa sentire più fragili e alla ricerca costante di un senso alle cose, quel senso che facciamo fatica a trovare nel contingente.
Massimo Conocchia.