Colleghe
Annalisa aveva provato subito simpatia per Marcella, già la prima volta che gliela avevano presentata.
Piacere, sono la nuova collega.
E Marcella, vestita senza alcuna civetteria, collo eburneo nudo, tette sode sotto il maglioncino color mostarda, protetta da un folto cespuglio di capelli corvini dai riflessi violacei, aveva replicato a bassa voce Piacere mio, ma senza convincimento, come se dubitasse che qualcuno potesse provare piacere a conoscerla. Anzi, a dirla tutta, aveva reagito con un sorriso appena percettibile che incurvava le labbra sottili. Una piccola nuvola scura aveva incupito il mare verde dei suoi occhi.
Timidezza? Ostilità? Incapacità di socializzare?
Chissà.
Dopo queste due parole aveva abbassato il capo e si era rimessa a lavorare con le braccia incrociate in mezzo a un diluvio di post-it e pezzettini di varie dimensioni ricavate dai post-it lacerati. Una netta prevalenza di giallo sul fucsia.
Quando tre giorni dopo il ragioniere le aveva chiesto di aiutare Marcella oberata di lavoro, Annalisa aveva accettato volentieri, e senza passare dal suo nuovo ufficio era andata incontro alla collega, vedendola entrare sventagliando una sciarpa.
Aveva l’aria un po’arruffata. Dalla borsa svettavano in maniera armonica, come se il caso avesse giocato di genio, un paio di fascicoli azzurrini e una rosa bianca.
Ea pare un raponsolo de rocia, pensò Annalisa mentre la seguiva lungo il corridoio di linoleum aspettandosi una cordiale accoglienza da parte della collega, la quale si dimostrò tutt’altro che compiaciuta lamentando anzi il fatto che nessuno l’aveva avvisata, che era sempre l’ultima a sapere le cose, mentre le dava le spalle e apriva la porta dell’ufficio.
Chiusa a tre mandate, neanche contenesse tutti i gioielli della Corona inglese come la Torre di Londra.
Dopo avere sfilato il cappotto e averlo appeso con noncuranza per una sola manica si era preoccupata di sistemare la rosa in un portafiori di vetro in cui stavano defungendo tre fresie gialle spelacchiate. I petali erano sparpagliati sulla scrivania, li aveva guardati con tristezza come se fosse dispiaciuta per la loro sorte, poi li aveva raccolti e tenuti da parte in un posacenere a forma di cuore. Non fumava, lo aveva ereditato dalla collega andata in pensione e alternativamente lo usava come porta cioccolatini o raccogli petali. Chissà a cosa erano destinati i petali conservati. Aveva quindi posizionato la rosa davanti a un portaritratti con la foto di un uomo. Non giovanissimo, con la chioma molto mossa. Gli occhi erano uguali. Doveva essere il padre.
Poi senza curarsi di lei aveva aperto la finestra a compasso osservando gli studenti che si affrettavano a gruppi sul ponte per andare a lezione.
“Quanta bella gioventù” disse senza guardarla, come se parlasse a sé stessa lì in piedi accanto alla finestra con gli occhi piantati verso l’orizzonte blu. Scrutava, spiava, aspettava, come se da quel serbatoio di vita che era in quel momento la strada dovesse catturare un sedimento di coraggio per affrontare la giornata. Si capiva che era inquieta e non aveva voglia di avviare una conversazione con lei, forse aveva fatto altri programmi per la mattinata, forse si era alzata storta, o semplicemente era irritata di condividere la stanza con una sconosciuta.
Era chiaro che era invincibilmente attratta da quella finestra dalla quale entrava un odore di foglie e erbe bagnate, assieme a un debole raggio del sole di novembre che le addolciva il profilo.
Rimase immobile in quella posizione per un bel po’, poi finalmente si allontanò dalla finestra e le passò una sedia con l’aria colpevole di chi non lo aveva ancora fatto.
“Scusami pensavo ti fossi giù seduta”, argomentò rossa in viso mentre si sedeva col sedere a metà come le persone insicure e accendeva il pc.
Finalmente fissò i suoi occhi vagabondi su Annalisa.
La trovò bella, d’una bellezza fine, forse addirittura altera, ma decisamente bella. Sembrava una dall’inestirpabile istinto da gran signora che dormiva in sottoveste di seta anche d’inverno appoggiando la chioma bionda alla testiera bianca del letto con un libro in mano per conciliare l’insonnia, perché era palese che Annalisa soffriva d’insonnia, con quegli occhi stanchi.
Un pensiero, una preoccupazione o un amore, inaspettato come un fiore nel cuore dell’inverno, doveva averle rubato il sonno. Erano anni che aspettava un sonno ristoratore che addormentasse tutti i suoi pensieri almeno fino all’alba. E intanto lavava, ricamava, fotografava i vicini, preparava marmellate.
Annalisa dal canto suo non sapendo come interpretare l’atteggiamento della collega non propriamente cordiale, si era seduta all’estremità della scrivania, cercando di respirare piano come per comunicarle Guarda che non darò fastidio, non è stata una mia decisione, mi hanno chiesto di venire ad aiutarti altrimenti me ne restavo in ufficio a lavorare alle mie buste paga, giuro che non l’ho chiesto io.
“Se te voi me also e vago via” stava per dirle quando d’un tratto Marcella come se avesse udito i suoi pensieri aprì il primo cassetto della scrivania, tirò fuori un sacchetto di taralli e le disse con un tono di voce affabile: “Prendine uno intanto che parte il programma, mi fa piacere che lavoriamo assieme, anche se non sono abituata. Ho la sindrome del passero solitario.”
Erano dei taralli integrali con mandorle salate e una puntina di peperoncino piccante. Molto gustosi e saporiti per cui Annalisa si sentì in dovere di farle i complimenti e chiedere la ricetta, pensando, avendo i taralli una forma abbastanza irregolare, che li avesse preparati in casa.
“Li ho comprati al forno dietro casa, non li so fare, io non so fare nulla” si rimproverò, mentre gli occhi, per il peso di quell’inaspettata confessione, da verdi diventavano sempre più lucidi e inquieti. Assunsero lo stesso colore verde cangiante del Lago di Cecita nelle giornate in cui il vento dalla Fossiata soffiava forte e lo increspava di rughe d’acqua fino all’ultimo lembo di terra verdeggiante di patate sotto le casupole di Lagarò.
Annalisa avvertì una tenerezza improvvisa per la collega, la quale evidentemente navigava nell’insicurezza da tutta la vita. Nessuno aveva mai stimato il suo lavoro e le sue competenze, nessuno le aveva mai fatto un complimento dicendole che aveva occhi assai belli che da soli bastavano senza ombretto senza eyeliner. Malgrado la conoscesse appena era evidente che Marcella aveva un animo sensibile, fragile, destinato all’ombra dell’amarezza, perché per quanto si fosse prodigata nessuno le aveva riconosciuto il suo posto nel mondo e lei invece di sforzarsi per legittimarlo, pura come era, timida come era, aveva sempre fatto un passo indietro, rimanendo sola, fuori da tutto, accrescendo dentro di sé la consapevolezza della propria inadeguatezza con la muta rabbia della dignità.
“Ma anch’io non so fare un’infinità di cose” le venne in soccorso da dire per non ferirla ulteriormente dopo che le era scappato di bocca che quei benedetti taralli qualche volta li aveva preparati per la figlia, affinché mangiasse qualcosa di buono visto che come tutte le ragazze di quell’età mangiava schifezze piene di conservanti e additivi.
Marcella fu così felice dalla confidenza di Annalisa che si sentì a suo agio, si sedette del tutto e allungando in modo maldestro la mano sul mouse fece cadere il telefono, una decina di post-it incollati sull’apparecchio, qualche lettera in attesa di essere protocollata. Guardò imbarazzata Annalisa, come se quel piccolo incidente fosse il segno di una disgrazia imminente, abbassò gli occhi, si mordicchiò involontariamente le labbra mormorando “Sono proprio un’incapace, non ne faccio buona una…”
“Ma no Marcella che dici? I post-it sono la maledizione di ogni dipendente perché prima ti danno l’illusione della sicurezza in quanto a memorizzare ci pensano loro, poi quando ti servono spariscono come i calzini in lavatrice”
Il volto di Marcella si illuminò di un sorriso di gratitudine e allegria.
Quando sorrideva i suoi occhi sprigionavano luce. Con tutta la violenza della purezza.
Peccato che non lo sapesse.
Aurora Luzzi