Diario dalla trincea 2: lo sguardo della morte e il caso
Uno degli aspetti che ci resterà maggiormente impressi nella memoria di questi mesi è il diverso modo con cui abbiamo gestito e affrontato il dramma peggiore per qualsiasi vivente, ovvero il distacco, la morte. Attorno a questo tema l’uomo si è a lungo interrogato alla ricerca di un senso e, soprattutto, ha elaborato una serie di riti e credenze, volti a rendere il distacco e l’assenza meno amara, a sublimare la non presenza fisica, proiettando il tutto in un’altra dimensione o mondo a seconda delle credenze. Attorno al tema della morte ogni popolo ha elaborato dei sistemi differenti, volti ad affrontarla senza essere travolti dal baratro che la nera signora si porta dietro con la sua falce. Oggi tutto questo ha improvvisamente perso di significato. La morte viene affrontata in solitudine da chi parte e da chi resta. Nessun rituale, nessun contatto.
Delle tante storie di queste settimane, una continua ad affollare i miei pensieri e, a volte, le mie notti. Ho deciso di renderne partecipe il lettore perché essa comporta una serie di riflessioni, che non è superfluo condividere. Ovviamente ciò che viene espresso altro non è che la descrizione di un evento generico, svincolato da qualsivoglia tipo di rifermento specifico quanto a persone, luoghi o circostanze. Tutela della privacy e riservatezza dei dati continuano a essere un imperativo, anche nella situazione emergenziale presente. I nomi e persino i generi soso stati volutamente alterati. Ciò che conta è il fatto non i personaggi, la cui riservatezza è sacra.
Veniamo ora al fatto. Sono le ore 12 di una normale giornata di questa primavera atipica. Una signora sta progressivamente peggiorando: la saturazione di ossigeno sta scendendo, appare con le estremità fredde, marezzata e sempre più affaticata. Il sensorio si sta progressivamente obnubilando ma è ancora, a tratti, lucida e contattabile. In questo stato in cui il respiro diventa più affannoso, frequente e ogni muscolo, compresi quelli dell’addome, sono coinvolti nello sforzo estremo di garantire il maggior apporto di ossigeno, la signora fa chiamare il personale; ha una richiesta da fare. Deve telefonare al figlio per salutarlo, per dirgli che gli ha sempre voluto bene. Parla di qualche incomprensione negli ultimi tempi, della necessità di non andarsene senza sentirlo. Si prova a telefonare alla persona indicata; il telefono squilla ma senza risposta. “Richiamate, vi prego!” insiste ansimante la donna, mentre il monitor registra parametri emodinamici e respiratori sempre meno compatibili con la vita. Vari tentativi inutili. La paziente spira da lì a poco col rammarico di non vedere esaudito quell’ultimo desiderio. Si continua a chiamare quel numero ma inutilmente. Dopo dieci minuti si sente suonare con insistenza alla porta d’ingresso del reparto. Si apre: appare un uomo sui cinquanta, sconvolto, agitato. E’ il figlio della paziente appena deceduta, che, insistentemente e inutilmente, si era provato a contattare. L’uomo, confusamente per l’agitazione, parla della necessità di inviare un messaggio scritto alla madre. Il biglietto è toccante e scioccante al tempo stesso: “Mamma, volevo esprimerti, oggi più che mai, quanto è grande l’amore che mi lega a te. Ti voglio bene e spero che tutto questo finisca presto per poterci riabbracciare. Perdonami, Tuo figlio Giulio”.
Con calma, pacatamente, si invita il signore ad accomodarsi in saletta, con molto tatto viene informato del trapasso della madre, dei tentativi di metterlo in contatto con il genitore. Aveva lasciato, per la fretta, il cellulare a casa. Si era recato di corsa, anziché telefonare come abitualmente faceva, perché aveva sognato il padre, defunto anni prima, che lo invitava a recarsi subito in ospedale. “Ieri sera ho lavorato al computer fino alle due di notte; mi sono addormentato tardi e mi sono svegliato un’ora fa, poco dopo avere sognato mio padre, che, in maniera categorica, mi imponeva di correre prima che fosse troppo tardi”.
La concatenazione di più eventi ha reso questa storia ancora più drammatica e, per certi versi, incredibile. Da un lato l’ennesima morte di una persona sola – partita senza potersi liberare di ciò che la opprimeva – e un parente sconsolato ad apprendere della dipartita senza la possibilità di un saluto, di un abbraccio, dall’altro la descrizione di una persona defunta da tempo, che ha destato il figlio dal sonno, intimandogli di correre perché la madre stava morendo e chiedeva di lui. Nell’insensatezza del momento attuale, quest’ulteriore momento di confusione affolla la mia mente, rendendo il tutto ancora più indecifrabile. La ferrea convinzione che tutto avvenga per caso in questo mondo senza senso, per un attimo, viene scalfita dalla descrizione di un evento sicuramente non casuale e non spiegabile con i nostri metri di misura. Il tempo per le elucubrazioni, per fortuna, è minimo. La guerra continua e ci impedisce di interrogarci ulteriormente.
Massimo Conocchia