Diario dalla trincea
DIARIO DALLA TRINCEA
Abbiamo deciso, da questo lunedì, di utilizzare la nostra rubrica per un rendiconto settimanale della situazione sanitaria, allo scopo di una maggiore e più diretta descrizione degli eventi.
25 Marzo, esco di casa di primo mattino, assorto nel pensiero dello scenario che troverò appena giunto in ospedale. Mi incammino sul viale che mi porta al lavoro, atipicamente desolato. Una pioggerellina sottile basta appena a rendere conto di una primavera che ha deciso di attendere a dispiegarsi. Un vecchio passeggia col cane all’interno del perimetro del suo abitato. Poco più avanti, un addetto ai controlli mi fa cenno di fermarmi, avvicinatosi, scorto il volto coperto in parte dalla mascherina, mi riconosce e quasi si scusa: “è tutto a posto, è un medico, vada pure e buon lavoro”.
Colgo in quella differenza terminologica – solitamente ci chiamano genericamente “dottori” – un qualcosa che va al di là della semantica: è il riconoscimento di un ruolo talvolta, in un recente passato, dato per scontato.
Giungo all’ingresso dell’ospedale e lo scenario è simile a quello di una guerra: una corsia preferenziale per il personale, addetti al controllo della temperatura che vagliano gli ingressi, tende della protezione civile per il pre-triage dei pazienti “Covid”. Da un mese non esiste più distinzione di ruoli all’interno del nosocomio. Moltissimi reparti trasformati per accogliere i pazienti positivi. L’afflusso è continuo, per un letto che si libera, giungono tre chiamate di richieste di disponibilità. Dal ginecologo, al dermatologo, al cardiologo, etc, ognuno sa che dovrà dare il massimo e nessuno recrimina, dal giovanissimo collega a chi, collocato a riposo, ha deciso di rientrare per dare una mano, per sentirsi utile. Perché, checché se ne dica, il prestare soccorso nelle emergenze è un imperativo che ognuno sente e che bussa forte nell’animo e non ti da pace fin quando non sei lì in prima linea a darti da fare. Stranamente non pensi al pericolo né ai tanti colleghi che in questo mese sono stati sacrificati sull’altare di una battaglia combattuta, soprattutto all’inizio, con parziale sottovalutazione del pericolo e con strumenti non sempre adeguati. Come ogni guerra ha i suoi sciacalli. Ma questa è un’altra storia.
Arriva mezzogiorno, l’ora del meeting, nel quale si fa il computo pesante dei morti, di chi va peggio, la ventilazione non invasiva non basta e ci si confronta con i rianimatori sulle chances di sopravvivenza e sulle concrete possibilità di una ventilazione meccanica. In casi estremi, soprattutto nei giovani, si spera nell’ECMO, una sorta di circolazione extracorporea che ossigeni il sangue, escludendo la circolazione polmonare nell’attesa di poterla riattivare in caso di miglioramento del quadro. Si racconta spesso in TV che il virus porta via solo persone anziane, già provate da altre patologie, che muoiono col coronavirus e non per il coronavirus: gli anziani sono la stragrande maggioranza di quelli che, purtroppo, non ce la fanno. Accanto a loro capita, non spesso per fortuna, di vedere trentenni o più giovani, apparentemente sani e senza altre patologie, che vengono falcidiati da questo frammento di materiale nucleico che, subdolamente, penetra nelle loro cellule e scatena l’inferno. Si pensa che, a volte, non solo la scarsa risposta immunitaria ma anche un eccesso di risposta del nostro sistema di difesa possa scatenare una reazione esagerata che contribuisce all’exitus. La fine del meeting è il momento più delicato perché c’è da chiamare i familiari per avvertire del decesso, comunicargli la procedura: incaricare un’agenzia di pompe funebri che provveda alla cremazione. Sono telefonate necessariamente succinte in cui lo spazio per la solidarietà e la compassione va suddiviso tra decine di famiglie. Nonostante l’eccezionalità del momento, alcune scene riteniamo faranno parte per sempre del nostro patrimonio di memorie “pesanti”, che popoleranno i nostri sogni per il resto dei giorni che ci rimarranno. Due coniugi si trovano ricoverati entrambi nello stesso reparto; la moglie non ce la fa, si chiama il marito, anch’esso covid positivo, nella stanza attigua, per darle un ultimo saluto. La paziente del letto accanto invidia il vecchio che accarezza i capelli della moglie piangendo. Avverte la fine e la morfina non è sufficiente a lenire l’ambascia respiratoria; non la spaventa morire, ma morire da sola.
Un cinquantenne non ce la fa; la figlia è ricoverata in un altro reparto: anche dopo trent’anni di lavoro, non è facile chiamare la moglie – segregata a casa, col resto della famiglia in ospedale – per comunicare quanto accaduto.
Insomma, uno scenario composito e surreale, specie se ci si ferma per un attimo a pensare alla situazione fino a poco più di un mese fa.
La vita e tante cose preziose, prima date per scontate, acquistano, oggi, un valore diverso e il gusto amaro della precarietà pervade ogni aspetto, rendendo ogni giorno un’occasione da non sprecare per dare un senso a noi stessi e a chi ci sta accanto.
PS: quanto descritto, scevro da qualsiasi riferimento specifico, è la descrizione di un quadro generale e comune a molte realtà del Nord, che si trovano, in questo momento, a vivere scenari inimmaginabili fino a poche settimane fa. Ogni riferimento, pertanto, a persone, luoghi o situazioni specifiche è da ritenersi puramente casuale.
Massimo Conocchia