Dal latte alla melagrana fuori stagione. Un po’ di storia della mia alimentazione

Per tutti gli anni ’50, nei primi due lustri della mia vita, la colazione consisteva prevalentemente in una tazza di latte. Lo si comprava fresco tutte le mattine dall’allevatore che lo portava da casa in casa.
Il latte veniva miscelato con caffè o con Ovomaltina (un nome che sapeva di campagna) e solitamente si accompagnava o con un bocconotto o con qualche biscotto o con un tarallo.

Era il tempo in cui avrei voluto più sviluppati gli incisivi superiori per meglio scorticare le castagne dalla pellicola interna (come li avevano alcuni coetanei, che invidiavo), quando mi sono trovato un’arancia in mano ed l’ho spremuta direttamente nel latte. Non l’avessi mai fatto: il latte si coagulò immediatamente e dovetti saltare la colazione.
Le alternative alla tazza di latte potevano essere o due tuorli d’uovo sbattuti con zucchero, o un uovo fresco succhiato dal foro più grande dei due praticati, o una fetta di pane con marmellata. Il miele era tabù: serviva solo per i dolci di Natale.
Dopo qualche altro lustro, la colazione poteva farsi anche con un pezzo di salsiccia, naturalmente di casa (il prosciutto, la soppressata o il capicollo erano per i pranzi estivi con ospiti). All’università, mi sono limitato a prendere solo il caffè; poi, molto più avanti, sono passato al caffè con brioche, a qualche yogurt, e in rare occasioni (all’estero o in campagna) a toast o ad uova con pancetta e finanche a patate fritte e peperoni. In compagnia, i cibi più rustici di Acri si accompagnavano di solito con qualche bicchiere di vino rosso. Quando non mi sono trovato dalle nostre parti, mi sono adattato a quel che offriva la piazza!

All’estero, invece, ero curioso di conoscere e provare le altre usanze, come il caffè francese, americano, alla turca e gustare i cibi tradizionali delle nazioni che visitavo. Il migliore yogurt l’ho assaggiato in un piccolo emporio nei pressi del porto del Pireo, ad Atene; alcune variazioni di gulasch, invece, in diverse case di amici ungheresi. La sorpresa maggiore la ebbi in Canada quando riassaporai, dopo una ventina d’anni, il formaggio color becco d’oca che si distribuiva nella chiesa dell’Annunziata dopo la messa domenicale.

Adesso ho una certa riluttanza ad utilizzare per colazione semi di chia, di girasole o i fiocchi d’avena o la crusca nello yogurt. Se non ci pensasse qualcun altro, poi non integrerei mai il cesto della frutta di mango, avocado, papaya, maracuja, frutti della passione (litchi). Altre indisponibilità le manifesto per i cornetti vegani o alla curcuma, ai semi di sesamo, alla farina di farro; per non menzionare le tisane allo zenzero, al cardamomo, al cumino, ai fiori di tiglio, che mi lasciano del tutto indifferente.
Un rigetto totale, incredibile ai più, lo manifesto verso tutte le pietanze con la spolveratina di tartufo sopra! Un sacrilegio per i buongustai! Ma non riesco proprio a sopportarne il profumo, probabilmente per via di una certa allergia.
In cucina gli aromi, per me, dovrebbero essere i nostrani, quelli classici mediterranei: origano, basilico, rosmarino, salvia, timo, aglio, cipolle, pepe nero (o bianco, o rosa), menta, peperoncino, finocchietto.

Tempo fa, a pranzo, mi è capitato fra i denti qualcosa di resistente. Dopo un po’ una seconda. Erano due fettine di aglio liofilizzato! Uno spicchio d’aglio naturale, quasi fresco per tutto l’anno, veniva sostituito da uno rattrappito? La modernità non può incidere tanto da rinunciare al sapore e penso che l’azzardo di utilizzare l’aglio liofilizzato non sarà facile ripetersi: si dovrebbe usare il prodotto di stagione o conservato con metodi che non possano alterare troppo le caratteristiche originali.
Qualche mese fa, sul un bancone della frutta di un supermercato facevano bella mostra delle melagrane rossiccio-giallognole. Non ho saputo resistere ed ho comprato quelle più mature: l’estate scorsa le mie melagrane si erano aperte tutte in anticipo e consumate non troppo mature.

Dopo qualche settimana ne ho aperto una e poi un’altra ed ho constatato che la buccia si manteneva fresca. I chicchi erano compatti, polposi, di colore rossiccio intenso, più scuri dei nostrani autunnali. Ho incominciato a raccogliere i semi nel palmo della mano e li ho portato in bocca. Li ho masticato, ma non ho trovato il sapore che mi aspettavo. Erano acri, nonostante fossero maturi e succosi. No, non erano gli stessi. Con rammarico ho dovuto convenire che la frutta fuori stagione, proveniente forse da un altro emisfero, può attirare l’occhio ma non soddisfare certamente le richieste del palato.
Eh si! I prodotti di stagione per manifestare le loro peculiarità debbono essere freschi e la loro freschezza dipende dalla distanza della zona di coltivazione: più questa è vicina più sono saporiti!

Francesco Foggia

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