Finalmente scoprii la cioccolata! Ma…
Durante gli anni della seconda guerra mondiale e quelli immediatamente successivi non si trovava nulla di quanto abbiamo a profusione in questi tempi.
Io avevo il piacere sadico di farmi raccontare dalla nonna materna i pranzi delle feste comandate, delle leccornie ecc. Tutte cose che non si trovavano e delle quali, io bambino, avevo perso memoria.
La nonna, poverina, si affannava a descrivermi come erano fatti i vermicelli; com’ era il baccala e tanto altro. Le ponevo mille domande, ma la mia curiosità rimaneva inappagata, perché quelle bontà era difficile descriverle e farmele capire e, ancor meno, immaginarle.
Fra le leccornie che mi raccontava c’era la cioccolata. Malgrado la sua buona volontà, come detto, la nonna non riusciva a farmi capire com’ era fatta. A sentirla, però, doveva esser buona, ma proprio buona.
Frequentavo la seconda elementare quando un giorno si presentò nella nostra classe il bidello. L’unico che vi fosse, non nella nostra scuola, ma in paese, nel plesso Monachelle, che era quello centrale.
Era un mutilato della Ia guerra mondiale. Aveva una gamba di legno. In una mano aveva un bastone, al quale si reggeva, nell’ altro braccio aveva infilato un grosso paniere. Insieme a lui c’era un impiegato comunale.
Ci alzammo in piedi, dietro l’ordine della maestra: – In piedi! -.
Non sapevamo cosa vi fosse in quel paniere, anche perché era coperto da una salvietta bianca.
Il silenzio era assoluto, ricordando che, altra volta, avevamo assistito alla stessa presenza, solo che al posto dell’impiegato c’era l’ufficiale sanitario. Allora, terribile ricordo, ci fecero a tutti una iniezione non so di che cosa e avevamo provato un dolore indicibile.
– Che diavoleria avranno inventato questo volta? -. Chiedevamo fra noi, interrogandoci con gli occhi in un linguaggio muto.
Scoperto il paniere, però, tirarono fuori un quadretto ben grosso di un qualcosa di color marrone. La maestra disse: – Vi hanno portato il cioccolato -. Al sentire quella parola sgranai tanto d’occhi: finalmente vedevo la cioccolata. Ci chiamarono uno a uno e ce ne diedero a ognuno un quadretto.
I compagni li divorarono di colpo in un boccone. Il mio lo avvolsi in un foglio del quaderno, che strappai senza farmi vedere dalla maestra, temendo d’essere sgridato. Dovevo far vedere la cioccolata alla nonna. Non vedevo l’ora di uscire.
Appena fuori non andai a casa mia, ma in quella della nonna, che era poco discosta.
Bussai al portone. Venne ad aprirmi la nonna e le dissi contento: – Indovina cosa ho?-. Dopo varie risposte fallite le dissi: – Ho la cioccolata! -. La nonna prese un coltello e disse: – Ne saggiamo un po’ per uno -. Tagliò, ma ebbi la delusione più grande di quante ne avevo provato nella mia breve vita: quel quadretto di cioccolata era invaso dai vermi.
Feci un pianto muto. Le lacrime mi sgorgavano senza un lamento. La nonna a vedermi così afflitto disse: – Non preoccuparti, ché ne scegliamo qualche pezzettino -.
La mia delusione era tanta e pari alla grande afflizione. Dissi: – Non ne voglio -.
La nonna si provò in ogni modo a consolarmi, ma fui irremovibile.
Tornai a casa. Mia madre a vedermi scuro in volto pensò che avessi fatto a botte o che ne avessi combinato una delle mie e mi investì con “parole di fuoco”.
Ero tanto sconsolato che non risposi, né dissi il motivo della mia afflizione.
Avevo visto cos’era la cioccolata, ma… non avevo potuto sentirne il sapore e la bontà. Per farlo avrei dovuto aspettare ancora qualche tempo.
Giuseppe Abbruzzo