Figure scomparse: ‘A tessitura

“Tricche tracche trà!”, così Padula riproduce il battere della cassa del telaio a mano, che trattiene il pettine e la tessitrice batte, per rassodare l’ordito.

Io, ragazzo, mi addormentavo e svegliavo a quel suono: era per me ninna nanna e sveglia.

Mia madre, nell’immediato dopoguerra 1940, fu costretta a riprendere l’arte della tessitura, che aveva appresa da ragazza. Sue maestre erano state le zie paterne, abilissime al pari di Aracne.

Quest’ultima, tessitrice eccellente, riporta la mitologia, era originaria della Lidia. Sfidò nella sua arte Minerva. La vinse. Quella per vendicarsi la trasformò in ragno, che da Aracne trae il nome. Dante, perciò, cantò, nel XXII del Purgatorio:

         O folle Aragne, sì vedea io te,

Già mezza aragna, trista in su gli stracci

Dell’opera che mal per te si fe’.

Il riprendere quell’attività da parte di mia madre era stata una necessità. Mio padre, dipendente statale era andato in pensione con una somma mensile considerevole. Investì in buoni dello Stato, che, venuta la guerra, si rivelarono carta straccia. Noi tutti di famiglia collaboravamo con mia madre. Incannavamo canne e cannelli. Un lavoro che non voleva fare nessuno, al quale mi sobbarcavo, si chiamava porijìri (porgere). Consisteva nel porgere i fili dell’ordito, uno a uno, per farli passare attraverso licci e pettini.

Mia madre lavorava fino a sera tardi. Le facevo compagnia e non volevo andare a letto, ma finivo, a sentire quel ritmico tricche tracche trà, per addormentarmi sulla sedia.

Al mattino risentivo quel suono e, prima d’andare a scuola, incannavo qualche cannello, di quelli che s’infilavano nella spola (‘a navètta).

Le partìte (le persone che ordinavano i manufatti) contrattavano il prezzo, raccomandavano la qualità del tessuto, mercanteggiavano. La tela si pattuiva a singhi (segni), impressi sullo stame per ogni canna dell’antica misura, pari a m. 2,10. Il segno si faceva con la pianta grassa, che cresceva spontanea, detta cùoccudu (ombelico di Venere), che colorava di verde.

La capacità della tessitrice si vedeva non solo nella serie di pinti (disegni a rilievo), che era capace di eseguire, ma, soprattutto dall’asola, che doveva essere para: ossia il filo della trama doveva essere tirato con precisione non rientrando o mollandosi lungo l’orlo.

Il costo maggiore era per il tessuto di seta. Tesserla, essendo finissimo il filo, significava impiegare molto tempo. In questo caso la contrattazione non era a canne, ma a palmi, più o meno 32 cm.

Al telaio si eseguivano, nelle coperte e in altro, disegni, riproducenti motivi stilizzati, che ricordavano quelli degli antichi Greci e Romani.

Quanto fosse apprezzata quest’arte è data dal detto: ‘U tilàru è sìegg’ ‘e notaru.Il telaio è scranno di notaio, ossia è remunerativo.

L’arte della tessitura fu in auge fino alla prima metà del secolo scorso. Si tessevano corredi, stoffe per abiti e indumenti intimi. L’industria, poi, soppiantò l’arte della mastra tessitùra.

La tessitrice, data l’ importanza e la diffusione nella società di quell’epoca, non poteva non dare motivo all’innamorato, per cantarne. A sera il giovane ricordava parti del telaio, che erano vicine alla sua bella, e quel battito ritmicamente scandito gli toccava il cuore.

Ohi navettèlla mia, tilàru, vatti

quantu l’Amuri mia senti li botti.

Tìessi, tessìennu, dua singhi su’ fatti,

guarda ‘ssa tila cumu veni forti.

E tu la tiessu ccu’ ngegnu e ccud arti.

Vatti tilaru mia, ch’ è menzannòtti.

Alla chiangiusa lu sonnu l’abbatti,

‘un suca alla minnella de la sciorti.

L’innamorato cantava, ancora, le capacità della ragazza nell’arti di Minerva. Il tricche tracche trà gli sembrava, ancora una volta, dar botte al suo cuore.

Chi bella donna c’è a ‘ssu cuntuornu,

chi m’assimiglia ‘n’ àcuda rigina,

quann’ illa piglia l’acu intra li mani,

fa, senza meno, ‘i ricami cchiù fini;

quannu pu’ trasi d’intra lu tilaru,

la navettèlla fa jir’ e veniri.

Quannu pu’ vatti la cascia mi pari

ca vatti botti a chissu cori miu.

Mi vorria riventari ‘nu marbizzu,

ppe’ mi vuttàri dintru ‘ssu tilàri.

Ti rumpèrra lu pìettin’ e lu lizzu,

puru la navettèlla de li mani.

Alla tessitrice avevano toccato lo strumento, al quale lavorava, perciò rintuzzava:

E tu, chi ti vu’ rumpar’ ‘i ciarbèlla,

passa derittu e nu mi riguardàri!

Giuseppe Abbruzzo

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