E Caino disse: “Andiamo ai campi”, di Vincenzo Rizzuto.

Questo romanzo, attraverso le vicissitudini del calabrese Mario Fossato (emigrato in Germania e figlio di un minatore morto giovane di silicosi), del suo amico palermitano Rocco Ceccuti (il quale arriverà a concorrere per una cattedra universitaria a Stoccarda) e di Adelaide (figlia del capomafia palermitano Calogero  Pezzuto), rappresenta il lento ma continuo, forse inesorabile, degrado del consorzio civile italiano degli ultimi 70/80 anni. In quest’ultimo lavoro di Rizzuto, attraverso le traversie dei tre personaggi principali, si mettono in risalto, fra l’altro, gli effetti, sulla vita quotidiana dell’italiano medio, del connubio Stato-mafia-Chiesa. 

Vorrei precisare (e non si tratta di un giudizio di valore) che più che romanzo storico, questo libro di Rizzuto deve considerarsi (per ammissione del medesimo scrittore) un saggio romanzato, ossia una una sorta di roman à thèse.

Cioè, Rizzuto ci offre in forma abbastanza amena un panorama ampio dell’Italia moderna e contemporanea, a cominciare dagli anni Sessanta, in una prosa avvincente e accessibile, e sono parole chiave questi due aggettivi perché uno dei meriti del libro è quello di tener legati, per modo di dire, i lettori dalla prima all’ultima pagina. E servendosi di queste strategie narrative riesce a raggiungere il suo scopo, quello di istruire divertendo.

I personaggi, sia principali che minori, richiamano un po’ tutti il “tipico” lukasciano, sono delle sineddochi, in un certo senso, di condizioni sociali condivise.

Oltre ai personaggi già menzionati, si annoverano il padre di Rocco, filosofo e maestro elementare in pensione, gli abitanti del sottobosco mafioso siciliano, la famiglia della moglie di Mario (altri meridionali costretti ad emigrare da esigenze economiche), il suocero di Adelaide, primario e cattedratico a Catania (nonché figlio illegittimo, nato durante l’occupazione alleata da un militare americano), il figlio di quest’ultimo, “imboscato” come grande sperperatore di denaro pubblico a servizio della cosca della famiglia di Adelaide. Ci sono anche, sebbene di scorcio, emigrati “di mare aperto” come i fratelli di Mario. Inoltre ci sono quelli “di scoglio” — Mario, per esempio — incapaci di un distacco definitivo dai luoghi d’origine. E non mancano gli anziani i quali, pure costretti alla solitudine, non accettano per nessuna ragione di allontanarsi dal paese nativo.

Comunque, a dimostrare che non si tratta della solita fiction, raccontata in terza persona da un narratore onnisciente che utilizza il discorso libero indiretto (strategia che permette allo scrittore di fungere da ‘filtro’ fra personaggi e lettori; cioè a presentare i propri pensieri come se emanassero dai personaggi), ci sono i vari commenti, sugli avvenimenti, della voce narrante. Cioè Rizzuto gioca a carte ben scoperte.

Quindi, compito dei lettori sarebbe quello di identificare prima e riflettere poi sulla tesi che serve da filo conduttore, appoggiandosi, almeno all’inizio, al titolo: cioè chiedendosi della identità dell’assassino: il vero assassino, non l’interposta persona che preme il grilletto. Chi è, in fin dei conti, il vero traditore, il mandante dell’assassinio preannunciato sulla copertina?

L’autore del romanzo a questa precisa domanda non risponde, preferisce lasciare la risposta, che non può che essere complessa, ai lettori per impegnarli criticamente.

Il libro si apre con il ritorno di Mario a casa dalla Germania, dove si è stabilito, per vedere la madre novantenne, malata. E, a tutta prima, si pensa che sia in atto un tradimento, forse fra Mario e i suoi fratelli, che vivono pure lontani (Caterina si è trasferita a Genova, Giuseppe a Como), oppure nei confronti della madre, semi-abbandonata nella casa atavica, perchè i contatti con i suoi figli appaiono a dir poco sporadici.

A Stoccarda, veniamo a sapere, Mario ha stretto amizicia con Rocco: anch’egli costretto ad emigrare, per sfuggire ai tentacoli omicidi della famiglia dell’amata Adelaide, i cui genitori, grandi mafiosi, non lo considerano degno della loro figlia unica.

E ora comincia a chiarirsi il tema sottostante al libro, quello dell’accoglienza del migrante, la xenía: pietra angolare millenaria della civiltà mediterranea (come leggiamo in Omero), e quindi anche degli insegnamenti del Vangelo (basti pensare a Matteo 25:40 e alla parabola del buon samaritano). I due amici fraterni, superati i duri sacrifici imposti dall’economia capitalista, riescono a sistemarsi, integrarsi e prosperare, in duro contrasto rispetto ai cosidetti clandestini sbarcati nel Meridione d’Italia, alcuni dei quali nel capitolo conclusivo servono da pendant ai nostri protagonisti, tenuti in schiavitù dalla cosca Pezzuto.

A tutta prima, pare che la tesi di Rizzuto, che riprende Aristotele, sia che le persone sono animali politici, e che, quindi, non possono non vivere in società; ma poi si constata, sotteso a questa tesi, che l’idea della sorte condivisa dall’umanità tutta è ciò che più preme allo scrittore. E a sostegno delle sue esplicite prese di posizione, non si può non notare un’argomentazione recondita: l’idea che l’Italia si sia trasformata in paese di immigrazione, dopo essere stato paese di emigrazione: nelle Americhe, nell’Africa settentrionale, in Europa e in Italia settentrionale, dove, anche se Rizzuto sceglie di non accompagnare i suoi lettori per questa strada, personaggi minori, come Caterina e Giuseppe, saranno stati anch’essi vittime di un razzismo che li vedeva non come individui, ma come stereotipi; e attraverso pregiudizi che hanno marchiato indelebilmente tutto il Sud d’Italia come un’entità omogenea e statica; e i meridionali come esseri subumani indigenti, violenti ed incivili.

In merito, non si può fare a meno di ricordare i magistrali interventi di uno dei maggiori scrittori del secondo Novecento italiano, il siciliano Vincenzo Consolo, anch’egli emigrato a Milano.

Rizzuto fa conoscere ai suoi lettori come i suoi protagonisti siano riusciti a ricrearsi una vita in Germania, “un paese dove si veniva pagati con puntualità e con salari del tutto diversi da quelli che si davano in Italia” (28). E, si capisce, questi emigrati poterono così inviare a casa discrete rimesse, quelle che diedero impeto iniziale al cosidetto boom economico, che a sua volta trasformò l’economia e la società italiana, permettendo anche a quei lavoratori di accumulare dei contributi assicurativi, con cui maturare anche pensioni dignitose per la vecchiaia in tutto il Meridione.

Infine, il testo abbonda di non pochi rimandi colti, che sono sempre utili ai lettori medi, desiderosi di approfondire le proprie conoscenze. Per citarne uno solo, il rinvio ai romanzi vigevani di Mastronardi, nonché il proprio lessico: ogni tanto spunta un lemma non comune, come “giunonico”).

        Il libro ha un altro merito, non trascurabile, quello di presentarsi al pubblico anche come un valido documento storico-sociologico; Rizzuto riesce a tirare in ballo grandi temi, come la sanità pubblica, il degrado della scuola pubblica, per far presente anche i soprusi subìti dagli insegnanti all’epoca dell’infanzia di Rocco e Mario, tema ancora attuale.

In appendice al volume si trova un saggio di Rizzuto sull’opera del filosofo Giuseppe Arena, valutazione della quale lascerò agli addetti ai lavori.

Così come lascerò i lettori di chiedersi dell’identità del Caino che inganna e uccide il proprio fratello.

Joseph Francese

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