Letteratura e medicina: un rapporto che viene da lontano

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Tra letteratura e medicina esiste un lungo e collaudato rapporto. Su cosa si fonda questo consolidato legame? Occorre anzitutto ricordare la lunga pletora di scrittori medici che, nel corso dei secoli, si sono succeduti.  Senza scomodare la storia antica, che pure pullula di fulgidi esempi di medici-scrittori, si potrebbero citare, in epoche più vicine, autori del calibro di Anton Cechov, Artur Conan Doyle, padre di Sherlock  Holmes, o i nostrani Carlo Levi, Aldo Spillaci, fino al contemporaneo Khaled Hosseini, autore di libri come Il cacciatore di aquiloni. E’ la stessa formazione medica che ha sempre alimentato la vocazione alla scrittura.

Fino ai primi del XIX Secolo chi ambiva al titolo di dottore in medicina doveva prima acquisire la cedola in belle lettere.

Ad Acri potremmo citare esempi come il dott. Michele Capalbo, vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, che, oltre che un valente medico, è stato il fondatore di un periodico d’ispirazione socialista: “Il Moccone”, la cui breve vita è da ricercarsi, anzitutto, nell’azione di pungolo e disturbo verso usurpatori e lestofanti vari.

Esistono, però, ragioni profonde che ci permettono di capire meglio come questo rapporto si sia naturalmente consolidato. Anzitutto, sia la letteratura che le medicina ambiscono a prendersi cura dell’uomo, la prima si occupa dello spirito, la seconda del corpo.

Alcune malattie, nel corso del tempo, hanno esercitato un fascino particolare per gli scrittori di ogni ordine e grado: basti pensare alla peste per Manzoni, alla tisi per scrittori con Franz Kafka. Tanti romanzi, a cavallo tra Ottocento e Novecento, hanno come sfondo luoghi o ambienti di cura.

L’ossessione per la malattia, il legame con la morte, il senso di smarrimento che si accompagna ad alcuni mali a prognosi infausta alimentano la ricerca di un senso al male stesso e la necessità per chi ne è affetto, o se ne prende cura, di trovare uno sbocco, un significato o semplicemente lasciare indelebili sensazioni e riflessioni sul senso della vita e sulla sua fine in ultima analisi.

Per meglio comprendere lo strettissimo legame tra letteratura e medicina, dobbiamo rifarci un attimo al significato della professione medica o perlomeno a quello che dovrebbe essere. Il medico non è, e non potrà mai ridursi a essere, un ricercatore del male e un somministratore di farmaci. Tra medico e paziente – insistiamo molto su questo – deve per forza intercorrere una relazione, un legame umano che permetta al paziente di aprirsi con fiducia a colui che si prenderà cura  di lui e al medico di vedere non la malattia ma il malato nella sua globalità. Così inteso, il rapporto medico-paziente non può non evocare sentimenti e ambire a una relazione che vada al di là della malattia, per approdare a un legame profondo e a un’empatia, che, molto spesso, finisce per favorire e agevolare il processo di cura. Questo vale molto di più per patologie di particolare gravità, che includono, per loro natura, un rischio di morte. Solo attraverso un legame e una profonda condivisione e comprensione della condizione esistenziale e psichica di questi malati si potrà far sì che chi vive una certa situazione morbosa si apra con fiducia al medico. Da questo rapporto empatico nasce, poi, l’esigenza del medico di esternare, attraverso la parola scritta, emozioni, sentimenti, che, a seconda della propensione, delle doti naturali di ognuno possono dare vita a scritti il cui valore umano, prima ancora di quello letterario, è notevole per il messaggio che si intende lasciare.

Massimo Conocchia

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