La notte dell’Epifania

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Filippo Greco, “l’ultimo dei romantici calabresi” a giudizio del prof. Antonio Piromalli, ci ha lasciato una ballata meravigliosa sulla notte dell’Epifania, che riproponiamo di seguito per la sua straordinaria bellezza.

Le nostre nonne erano solite raccontarci, nelle notti d’inverno davanti al camino, quanto questa notte fosse magica: le bestie ricevevano il dono della parola e, se non adeguatamente nutrite, avrebbero maledetto i proprietari. Per questo motivo, dalle nostre parti, ci si apprestava a dare da mangiare in abbondanza agli animali in questa notte. In tempi recenti la befana ha assunto le sembianze di una vecchia che, su una scopa, andava in giro a distribuire doni ai bimbi buoni e carbone a quelli meno buoni. Una sorta di mercificazione, che ha tolto alla festa molto del suo fascino. La lirica di Greco è straordinaria sia per la bellezza dei versi che per la loro capacità di riportarci in un mondo ancestrale, nel quale la magia faceva da sfondo a ogni agire dell’uomo, contribuendo a mantenere un alone di mistero attorno al mondo e alle sue miserie. Dai versi sottostanti traspare tant’altro, tra cui la consapevolezza del poeta – morto giovanissimo di tisi – di una fine imminente. Di seguito la ballata.

LA NOTTE D’EPIFANIA

                Questa è la notte d’Epifania.

Quante memorie mi son tornate!

Io mi ricordo la nonna mia

E le novelle che m’ha narrate

                – Figlio, dicevami, con voci umane

oggi le bestie sanno parlar:

o figlio, sàziale di molto pane,

ché non si possano di te lagnar-.

                Or è la notte d’Epifania,

ed io gran tavola apparecchiai;

poi ne la fredda stanzuccia mia

tutte le bestie ci convitai.

                Ci venne il gatto, ci venne il cane,

vennero ucceli d’ogni color,

pure i sorcetti da mille tane

co’ musi aguzzi sbucaron fuor.

                E poi ne l’alto seggio scarlatto

io mi sedetti rannuvolato:

sotto i miei piedi da un lato il gatto,

il can guardommi da l’altro lato.

                De gli uccelletti l’allegra schiera,

sopra i ginocchi mi svolazzò,

e del mio seggio su la spalliera

un nero corvo salì e cantò.

                E disse: – O giovine, per te farei

tutto; comandami perfin ch’io mora-.

Risposi: – O corvo, dal ciel vorrei

che tu vivessi mill’anni ancora.

                Ma quand’io morto sarò sotterra,

sul mio sepolcro tu dêi volar:

picchia col becco la fredda terra,

o pietra, o marmo, la dêi spezzar.

                E dopo questo, corvo mio bello,

un’altra cosa da te vorrei:

cìbati, o corvo, del mio cervello.

Cìbati, o corvo, degli occhi miei.

                E se ti cibi del mio cervello,

tre palmi l’ugne tu possa far;

e quattro palmi, corvo mio bello,

se poi degli occhi ti vuoi cibar.

                E poscia il petto mi dêi spezzare,

da la sua carcere mi strappa il core,

e lo trasporta per terra e mare

a qualche orefice di gran valore.

                L’òrafo in piccola dorata bara

sparsa di gemme lo chiuderà:

così presentalo alla mia cara

che i piedi belli v’appoggerà.

                Fanciulla bionda, Sirena, Fata,

Sultana ed arbitra di tutti noi,

in mezzo agli altri pur io l‘ho amata,

e questi versi li fo per voi.

                Ormai le nebbie sparîro al sole,

il mio fantastico sogno passò:

né puote un corvo formar parole,

ned io sì giovane morir vorrò.

                Ma in ogni favola, fanciulla cara,

qualche recondito vero s’esprime:

ed ecco, i versi son l’aurea bara,

perle e diamanti ne son le rime.

                Il cor mio vivo qui sta serrato,

e voi premetelo col picciol pié:

pure se fossi da voi calcato,

sarei superbo siccome un re.

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