« ‘A speranza », una lirica inedita di Salvatore Scervini

Salvatore Scervini (Acri 1847 – 1925) è stato tra i più grandi poeti dialettali calabresi. Aveva elevato il dialetto a lingua universale; addirittura, si firmava in dialetto. Le sue poesie sono intrise di dolore e denuncia per le misere condizioni del popolo. Vi troviamo le ingiustizie e i torti, vi troviamo un’immagine del brigante diversa da quella che ci hanno tramandato i piemontesi. Chi si dava alla macchia, lo faceva per riparare a dei torti e dei soprusi subiti, da lui, dalla moglie, dai figli o dai familiari in genere. Vi troviamo il dramma dell’emigrazione e tant’altro.

Il calabrese, storicamente, è stato abituato a vivere dell’essenziale; parco di parole, poco incline alle lotte, si è adattato per lungo tempo a condizioni disumane.

   Di fronte alle difficoltà ha avuto due strade: la rassegnazione disperata o l’emigrazione. La terza via, la ribellione, era quella scelta dai pochi che non si adattavano a chinare la testa : i briganti, appunto.

   Quanto poco il nostro popolo contasse nella speranza di un futuro migliore è ben espresso in questa lirica inedita  di  Scervini.

“’A speranza”

Cum’appriessu de ‘n uossu va lu canu,

l’omu appriess’ ‘a speranza curri e suda,

quannu si cridi ca la teni ‘mmanu

strngi lu vientu e la manu s’annuda.

Siecuta mamma ‘n acelluzzu stranu,

curri ppe’ l’acchiappari e nu’ l’accuda,

vula vicinu e doppu cchiù luntanu,

si s’avvicina lli vota la cuda.

Cussì fa la speranza traditura!

Ha la faccia cuverta de ‘nu velu,

si la scummuogli: chi brutta figura!

Teni ‘mmucca lu zuccaru e lu melu,

ti  gabbulia ‘nfign’ ‘a siburtura,

                                                  e ccu’ la morta ti lassa lu felu!

Massimo Conocchia

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