La sindrome del Nobel mancato.
Quando ero piccola nonna Cristina mi consigliava di apparigliarmi a persone migliori di me, oneste, coerenti, di parola (quando ancora la parola data era autorevole quanto un contratto scritto) e soprattutto che non raccontassero fandonie.
Oltre alla delusione di essere nata in una famiglia sbagliata, nella quale mancava evidentemente qualcosa che inficiava la possibilità di essere uguale o migliore di altri, facendo desiderare loro di apparigliarsi a me, crebbi con questa curiosità di individuare i raccontafandonie. Non era facile scovarli, perché a quell’etàmi sembrava che tutti ne sapessero più di me e raccontassero verità invidiabili che avrei voluto narrare io.
Ero già grandicella quando incontrai il primo autentico raccontafandonie.
Totonno si chiamava.
Era d’estate, una magnifica sera d’estate. Ciondolavo nei pressi dell’acquaio pubblico per acchiappare qualche insetto pattinatore quando incontrai Totonno che si ritirava dalla campagna con in mano un cestino di pomodori maturi e una scarola. Faccione rubicondo e camicia a quadri in flanella sia d’inverno che d’estate, grande amico di mio nonno, col quale condivideva la passione per la caccia. Iniziò a raccontarmi di un memorabile giorno in cui era andato a caccia da solo perché nonno bloccato in casa dalla gotta. “Che giornata, che giornata, che fortuna”, ripeteva sorridendo. Aveva catturato una lepre e un fagiano, e soprattutto aveva visto una zaccanella bellissima saltare da un ramo all’altro di un pino secco e altissimo. La bestiola era così vicina in linea d’aria che era riuscito a vederne la caratteristica macchia bianca attorno al collo. Dopo cinque minuti, accorso Giggino, si sentì in dovere di replicare la storia nella quale aveva catturato tre lepri, tre fagiani. Alla sua domanda “ma l’avete sparata?” si prodigò a spiegargli che era stato impossibile in quanto l’albero era pieno di rami frondosi al riparo dei quali la zaccanella si era ben nascosta.
Totonno aveva creato due storie diverse. Nella seconda gli animali si erano per miracolo moltiplicati e la zaccanella, protagonista affascinante e indiscussa, in virtù dell’arte della fandonia dell’uomo, non saltellava più sul pino secco ma su un albero frondoso, presumibilmente una quercia, per cui c’era da sospettare che se si trattava di una quercia non era stato a caccia in Sila ma in una località ad altitudine più bassa.
Forse se avessimo incontrato anche la mamma di Giggino, mentre rincasavamo tutti e tre mangiando i pomodori, la storia sarebbe cambiata ancora. Chissà che famiglia di volpi, lepri e fagiani e linci del Canada avrebbe ospitato la sua lievitante storia.
Col passare degli anni i raccontafandonie si sono evoluti, e grazie alla rete, nella quale pescano notizie di ogni sorta, non validate da nessuna comunità scientifica, né tantomeno dal volenteroso e solidale vicino di casa, non perdono occasione per dare fiato alle loro corde vocali e lamentare il fatto che sono dei premi Nobel mancati.
Millantano lauree presso prestigiose Università nelle quali non si sono mai iscritti, si presentano come luminari del Policlinico mentre fanno la guardia medica a San Fili e dintorni, pontificano sulla crisi in Medio Oriente senza avere mai letto un libro o quotidiano, si grattano la testa mentre parlano con acredine di quello stronzo di un prof. del liceo incapace di fiutare la loro genialità che li avrebbe portati dritti dritti a Stoccolma a ritirare il Nobel di qualsiasi disciplina perché erano bravi in tutto.
“Ah se non fosse stato per quel professorino sfigato! Che poi non era nemmeno così bravo nelle sue materie, originale vero, ma chissà che cazzo di raccomandazioni aveva per beccarsi il Dottorato di ricerca nientemeno che a Harvard.”
Aurora Luzzi