Il rapporto medico-paziente come elemento fondamentale nel processo di cura

Nel corso dei decenni è profondamente cambiato il rapporto medico-paziente, con inevitabili ripercussioni sia nel processo di guarigione che nell’aderenza del paziente stesso alla terapia proposta.

Nel Novecento, si è passati da un rapporto francamente sbilanciato, nel quale il medico era, specie nelle nostre realtà, il depositario di un sapere non solo scientifico, a uno non paritetico ma meno sproporzionato, all’interno del quale l’utente era nelle condizioni di capire e interloquire con il professionista. Non infrequentemente ci si trovava di fronte a fasce notevoli di popolazione per nulla o scarsamente scolarizzate, prive degli strumenti essenziali per un dialogo alla pari e che il più delle volte erano soggetti passivi di un rapporto, all’interno del quale o obbedivano acriticamente a dei dettami o, al contrario, rifiutavano la cura come elemento o prodotto di un rapporto viziato da una mancata ricezione e/o elaborazione di informazioni essenziali.

Nell’ultimo quarto del secolo scorso, gli effetti della scuola dell’obbligo, il miglioramento delle condizioni economiche e di vita – grazie soprattutto alle rimesse dell’emigrazione – hanno fatto si che il Meridione divenisse una delle realtà a più alta densità di diplomati e laureati.

La rivoluzione culturale e sociale ha finito, giustamente, per cambiare i termini del rapporto, con un’utenza sempre più ricettiva, che non solo era in grado di comprendere ma pretendeva che il rapporto avvenisse alla pari. E’ cambiato anche il ruolo sociale del medico: negli anni ’70, ’80 e ’90, ci si è trovati di fronte a un esubero di professionisti, provenienti dalle fasce sociali più varie e non più dai soli ceti medio-alti o nobiliari.

L’avvento di Internet, una trentina d’anni fa, ha permesso, poi, a una popolazione sempre più scolarizzata di accedere – spesso autonomamente e senza mediazioni – a informazioni scientifiche. Quest’ultimo aspetto, riteniamo, abbia accresciuto il distacco e deformato ulteriormente un rapporto, che è passato da una proposizione passiva – e assai spesso imposta – a una fruizione selvaggia e acritica di informazioni spesso falsate e devianti.

Negli ultimi vent’anni il rapporto medico-paziente ha subito un’ulteriore metamorfosi e una progressiva involuzione dovuta a molteplici e eterogenei fattori.

Il rapporto medico-paziente presuppone una relazione paritetica in termini di rispetto e di dignità. Questi presupposti sono propedeutici per un sereno e proficuo scambio, che dovrà portare alla diagnosi e alla cura. Il medico è stato visto, in tempi recenti sempre più spesso, con diffidenza e come persona che, nel suo agire, se ha bene operato ha fatto solo il suo dovere, se qualcosa non è andata secondo le aspettative è diventato oggetto di richieste risarcitorie, raramente espressione di “motu proprio” del/degli interessati.

Solo per indicare una possibile linea di lettura, l’incontro tra il medico e il paziente – come sostiene il prof. Fulvio Librandi – “..non può mai consistere in un mero scambio di informazioni. L’incontro costituisce il momento inaugurale di un processo di cura, in cui la narrativizzazione della malattia da parte del paziente consente al medico di valutare la percezione complessiva che il malato ha di sé stesso. L’ascolto si profila come una funzione cognitiva ed emotiva che consente al medico di cogliere con la mente, ma anche per empatia, ciò che il paziente vuole dire e soprattutto vuole fare, cioè chiedere rispetto per la propria soggettività. Il colloquio non serve solo per far passare informazioni, ma è un processo di costruzione condivisa di senso 1.

E’ questo, a mio avviso, il possibile terreno di incontro per un nuovo, più proficuo, rapporto tra il medico e il paziente, non più viziato né da un’assurda sopravalutazione del ruolo e della funzione del professionista, ma neanche da un deleterio e sciagurato rapporto basato su sfiducie e sospetti da parte del paziente. Gli episodi di violenza fisica e verbale, sempre più frequenti nei confronti di medici, sono il frutto di una visione distorta, che vede in colui che dedica la propria vita, in definitiva, alla cura e al benessere psico-fisico dell’individuo, non una figura da accogliere con fiducia e predisposizione favorevole, ma bersaglio da colpire tutte le volte che le cose non vanno come ci aspetteremmo. Un clima simile si sta creando anche nella scuola, nei confronti degli insegnati.

In una situazione siffatta, intravvediamo – secondo una prospettiva suggerita dallo stesso prof. Librandi2 – una sola via d’uscita e un solo terreno di incontro: passare dal “to cure” (curare) al “to care” (prendersi cura), nel senso di ascoltare il paziente, vedere in chi si rivolge  al  medico non un oggetto (la malattia) ma un soggetto di cui prendersi cura nella sua globalità. Dietro ogni malattia c’è una storia, spesso un dramma, a cui il medico non può e non deve restare indifferente. Ricordare il nome di battesimo dei propri pazienti, spendere 5 minuti del proprio tempo per informarsi sulle loro vite, spesso favorisce un clima di fiducia e, in definitiva, una maggiore aderenza del paziente stesso alle prescrizioni e alla terapia. Il paziente, da parte sua, deve affrontare il medico con rinnovata fiducia e disponibilità, vedendo in chi gli mette le mani addosso un riferimento e non una controparte da guardare con sospetto.

Anche per i medici, d’altra parte, la conquista della fiducia del paziente, la disponibilità alla relazione sono componenti fondamentali per la buona riuscita del processo terapeutico.

Massimo Conocchia .

1 F. Librandi, prefazione a “La medicina popolare in Calabria”, G. Abbruzzo e Massimo Conocchia, p. 20 (in corso di pubblicazione per OR.ME).

2 Ibidem, p. 22

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