Al museo delle cere

Finalmente era arrivata la settimana di vacanza da trascorrere con la figlia. A questo pensava Roberto fuori dall’ufficio, lungo via Wagner, sotto un cielo grigio gravido di pioggia. Sembrava abbastanza giovane nonostante i cinquant’anni e la testa calva come una palla di marmo. Gli occhi tondi e neri brillavano di un orgoglio fiero, che abbelliva il volto morbido, accuratamente rasato. Era il classico uomo a mezzo sorriso, nel senso che il sorriso era sempre contratto fra due mollette invisibili agli angoli della bocca, che gli increspavano anche le cavità ombrose delle guance in una piega disillusa.

Camminava con passo malfermo, non era ben saldo sulla gamba destra. Tutta colpa di quel maledetto incidente al tendine di Achille di due anni prima. Ma che gli era saltato in mente quel dannato Ferragosto a fare il ragazzino e schiacciare a pallavolo come avesse avuto vent’anni? Comunque, nonostante l’ortopedico sostenesse che fosse a posto, da allora il piede non era più lo stesso, e ogni volta che scendeva le scale sentiva una piccola scossa elettrica.

Portava i calzoni nuovi di fustagno sotto la giacca di velluto blu liscio, che era sempre stato il suo vezzo sin da ragazzino. Uno dei pochi vezzi della sua vita. Il velluto liscio gli piaceva proprio, era morbido, elegante, lucido quel tanto che non guasta, perfetto per ogni situazione, matrimoni, funerali, colloqui di lavoro. Infatti possedeva un’autentica collezione di giacche di velluto, blu, grigio antracite, nero, verde bottiglia, marrone, zafferano gay.

Per essere metà gennaio faceva incredibilmente caldo perciò all’uscita dal lavoro si era tolto la cravatta, aperto il colletto della camicia e liberato della giacca, che teneva a penzoloni sulle spalle.

Così la strappo di sicuro prima di arrivare a casa, pensava fra sé, infilando il dito nel passante. Quella giacca blu aveva un’eco di muffa, forse avrebbe dovuto rinfrescarla appendendola alla finestra come faceva la dirimpettaia, la signora Tina, che ogni mese gli parava di fronte un’imbarazzante pelliccia di lapin, consunta dal tempo e piena di catenelle d’oro sulle maniche che lo lasciava interdetto.

Superò l’asilo, che aveva appena restituito all’aria aperta dozzine di bambini vocianti in costume, reduci da qualche festicciola a tema o rappresentazione teatrale. Dietro la scuola svettavano le cime delle montagne lontane, ancora innevate, simili a degli irregolari pani di zucchero. Nel giardino il caldo aveva fatto sciogliere le cupole di neve di qualche settimana prima, scoprendo i ranuncoli, le ortensie e alcune pianticelle seccate.

Girò a sinistra, per il viale della stazione ferroviaria, dove due giardinieri stavano finendo di potare i grossi tigli, che vedovi dei rami si ergevano nerboruti nell’aria tremula di pioggia. Un uccello panciuto dal piumaggio grigio marrone saltellava in maniera irragionevole di ramo in ramo davanti a loro. Altri dalla lunga coda schiamazzavano passando da un albero all’altro. Chissà che razza di uccelli erano. Non ne riconosceva nemmeno uno! E pensare che suo padre per anni lo aveva trascinato in campagna obbligandolo a identificare piante, fiori, erbe officinali, attraversando stagni e canneti, convinto che un ragazzo della sua età dovesse avere rudimenti di botanica, ornitologia, geografia e di tutto un po’.

Presta attenzione figliolo, questo è il fringuello, il suo canto è forte e melodioso, costituito da tre fasi distinte in rapida successione e terminanti in un energico trillo, questo è invece il cardellino, lo riconosci dal volo ondulato e il suo canto rispetto a quello del fringuello è meno forte ma altrettanto soave.

Passò davanti alla stazione ferroviaria, rallentò il passo, notò che l’orologio non era stato ancora riparato, era fermo alle 7.12. Uno scricchiolio lo indusse ad alzare gli occhi, alla finestra dell’appartamento sopra la stazione, una donna di carnagione rubizza, stava sbriciolando dei biscotti ad un uccellino in gabbia. La donna non era bella ma aveva degli occhi inquieti e affamati di novità, che la rendevano interessante.

 Chissà a cosa pensava, che sognava!

 Le misteriose fantasticherie delle donne.

Cosa non avrebbe dato per indovinarne una, almeno una nella vita. Lui ateo sarebbe stato disposto perfino a pregare e a riempirsi la bocca di avemarie pur di entrare nella testa delle donne per un’ora, guardare al microscopio la nascita e l’evoluzione dei loro pensieri, penetrare nella fornace di tutti i loro sogni e passioni per comprendere finalmente certe bizzarrie tipicamente femminili, la ragione di quei fottuti “no” che significano “sì”, quel loro dire non dire, quell’odiosa tendenza a proteggerlo manco fosse stato un animale in via d’estinzione.  

La donna, come se avesse inteso i suoi pensieri, gli lanciò un’enigmatica occhiata e gli regalò un sorriso, al quale rispose con un cenno del capo. Un sorriso fa sempre piacere, un sorriso può far battere il cuore, e a volte porta lontano, si disse, riprendendo il suo cammino con un principio di dolcezza interiore.

In mezzo allo sferragliare dei treni e agli annunci dei ritardi pensava alle infinite cose da fare. Nemmeno per strada riusciva a liberare la mente. Del resto adorava il suo lavoro, in esso espandeva quell’energia vitale che un tempo metteva nell’amore, nella famiglia, nelle regate. Infatti i giorni in cui non lavorava si annoiava da morire e aspettava con impazienza la sveglia del lunedì mattina che lo riportava all’eccitazione della vita normale. Rimuginava su quell’algoritmo di filtraggio digitale che non funzionava, al primo run andava, al secondo si impiantava e nisba.

Se solo avessi un pizzico di fortuna –si ripeteva- stasera potrei venirne a capo, così poi potrò dedicarmi a Chiara. 

Erano due giorni che non la chiamava, aveva proprio voglia di sentirla. Dopo cena l’avrebbe contattata via skype per sapere come era andato il viaggio con la madre e soprattutto per convincerla a portarsi dietro solo tre pochette invece di dieci come l’anno precedente. Ecco, sua figlia Chiara era un’altra nella cui testa avrebbe fatto volentieri un giretto, e magari già che c’era, avrebbe potuto ficcarle dentro le equazioni di secondo grado.

Giunto al ponte, svoltò a sinistra investito dalla fresca brezza del lago e dall’odore di pesce fritto.

Quanto era piacevole lo sciabordio delle onde del lago, in cui si specchiavano i palazzi in stile veneziano. I loro merletti increspavano la superficie dell’acqua, in un gioco di sfumature d’opale e luccicanti tremori. Il cielo non era più pallido ma andava via via rischiarandosi per effetto di un venticello che soffiava da nord. Sulla spiaggetta del lago i soliti perdigiorno, in tuta e scarpe da tennis, portavano a spasso cani lanosi.

Come aveva previsto, il passante si ruppe e la giacca scivolò sul marciapiede, sfiorando una pozzanghera. Si abbassò per raccoglierla ma sentì improvvisamente il nervo sciatico tirare, un dolore tagliente come la lama di un coltello gli trafisse la schiena e gli impedì di allungarsi fino a terra. Giaceva immobile in quella posizione, quando entrò nel suo campo visivo una ragazza manifestamente alta, dalla chioma di liquirizia viva e gambe da gazzella, su tacco otto nove.

Santa scienza, che valchiria!

Erotizzava l’aria, malgrado una buffissima borsa a forma di fungo che le dondolava al braccio.

La ragazza veniva proprio nella sua direzione, e benché fosse a pochi passi da lui, gli parve che il suo cammino durasse un tempo infinito, come se provenisse da uno spazio lontanissimo, quasi da un’altra dimensione. Quando gli fu di fronte, risoluta, senza guardarlo, si piegò a raccogliere la giacca, quindi gliela porse con un armonioso movimento di braccia che sembrava il festoso inizio di una danza, poi gli piantò in faccia i grandi occhi blu. Irradiavano luce e calore. Roberto non era sicuro che fosse vera, anzi sospettò che si trattasse di una visione, una magnifica visione che gli aveva legato la lingua. Dove era finito l’uomo pieno di giudizio che faceva volare i pensieri per tradurli immediatamente in parole? Che figura barbina, cosa non avrebbe dato per tornare in posizione eretta e conversare con lei, ma sorpreso da quell’eccesso di emozioni non blaterava parola.

Fu la sconosciuta a levarlo dal disagio dicendo:

-Si è rotta?

Con un singolare ritardo, rispose a mezza voce:

-La schiena? Spero proprio di no.

-Non la schiena, la sua giacca! Replicò la ragazza.

Roberto, consapevole di avere un vocione, in quanto glielo rimproverava sempre Chiara, tentò di addolcire la voce, usando un tono più basso del suo, mentre articolò a fatica:

-Ah la giacca sì, è saltato il passante.

Roberto continuava a fissarla in preda a dolcissime sensazioni. I suoi pensieri turbinavano, fantasticava su quanto sarebbe stato piacevole passeggiare sul lago con lei, fermarsi in qualche gelateria, magari una di quelle col giardino sul retro, e poi guardarla adagiata languidamente sulla sedia in ferro battuto mentre studiava il menu. Si sarebbe accarezzata con aria distaccata la nuca, incerta su cosa prendere, poi tutto d’un tratto avrebbe ordinato un tartufo al caffè, avrebbe stretto la mano a pugno davanti al mento per controllare la perfezione dello smalto sulle unghie, infine avrebbe affondato il cucchiaino nel suo gelato in un ruggito di calorie, che le avrebbe fatto sgranare gli occhi blu in un pulviscolo liquido fra l’azzurro e il verde, come si vede in certi laghi di montagna.

Stava per proporle un gelato a La dolce vita quando d’un tratto lei si avvicinò e senza alcun imbarazzo iniziò a massaggiargli la schiena come se fosse la cosa più normale del mondo, lì in mezzo alla strada fra passanti incuriositi e bimbi trotterellanti al seguito dei genitori

Lo strinse appassionatamente, e all’improvviso lo baciò sulla bocca con frenesia. Un bacio lungo, languido, inebriante.  Le donne sono davvero sorprendenti pensò, brancicato al corpo prorompente della ragazza in una morbidezza segreta di lana e fianchi, che non provava da tanto tempo. Finalmente nella sua vita un momento di accordo col mondo, un incontro che gli faceva tremare le ginocchia, accendere la carne, naufragare i pensieri.

-Sono contento di averti incontrata, stava per sussurrarle quando sentì sbattere una porta e irrompere la vocetta festosa di una bambina che urlava a squarciagola:

-Papà papà svegliati! Dobbiamo andare al Museo delle Cere.

Aurora Luzzi

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