Fausto Gullo e la riforma agraria: una “rivoluzione” mancata
Fra i politici calabresi di maggiore spicco del secolo scorso rientra sicuramente Fausto Gullo. Nato a Catanzaro il 16 giugno 1887, avvocato, visse per molta parte della sua vita e si spense, nel 1974, a Spezzano Piccolo, nella Sila cosentina. Antifascista della prima ora, militò nelle fila del P.C.I. fin dalla sua nascita, nel 1921. Deputato fin dal 1924, anche se la sua prima elezione venne annullata dai fascisti. Figura di spicco dell’antifascismo nazionale e regionale, ricoprì, nei governi di Solidarietà nazionale dal 1944 al 1947, dapprima l’incarico di ministro dell’Agricoltura e delle Foreste e, successivamente, quello di ministro di Grazia e Giustizia, succedendo a Palmiro Togliatti. Da ministro dell’agricoltura, si adoperò moltissimo per una serie di riforme, tutte volte a migliorare le condizioni dei contadini. Per questo suo impegno si guadagnò l’appellativo di “ministro dei contadini”. Gullo fu il padre della riforma agraria del secondo dopo guerra, che, di fatto, trasformò molti contadini in piccoli proprietari, attraverso l’assegnazione di quote di terreni demaniali. Dopo di lui, al ministero dell’Agricoltura, si insediò l’onorevole Antonio Segni, possidente terriero, e l’impulso riformatore non procedette con lo stesso ritmo. Fausto Gullo aveva avviato un percorso di riforme del settore agricolo, volte a garantire sussistenza e una vita dignitosa a gente che era, fino ad allora, vissuta sotto il gioco dei padroni. Queste riforme non diedero i risultati sperati per una serie di ragioni, in primis le piccole dimensioni delle quote assegnate, che bastavano a malapena a coprire i fabbisogni dei singoli assegnatari. A quanto sopra va aggiunta l’assoluta mancanza di meccanizzazione del lavoro nei campi, anche per via dello scarso supporto fornito ai contadini dall’Opera Sila, che si limitò a fornire qualche semente, qualche mulo e poco altro. Se a tutto questo si aggiunge la scarsa propensione dei contadini ad aggregarsi, ce n’è abbastanza per far naufragare un tentativo, che, ribadiamo, nelle intenzioni era senza dubbio rivoluzionario. L’unione di più quote avrebbe permesso una maggiore produzione e maggiori tutele. Progressivamente i terreni vennero abbandonati e i loro proprietari andarono a gonfiare le fila degli emigrati. Negli anni 50 del secolo scorso erano molto in voga le teorie dell’economista Manlio Rossi Doria, che riteneva salvifica l’emigrazione in quanto la diminuzione della densità demografica avrebbe finito, a suo parere, per rendere migliori le condizioni di vita di chi restava. Nulla di più errato: i paesi venivano privati delle loro energie migliori e finivano per impoverirsi ulteriormente. Le rimesse degli emigrati venivano, peraltro, investite esclusivamente in mattoni e ben difficilmente in attività produttive. I governi democristiani che si succedettero dal dopoguerra in poi affrontarono il problema in termini di puro assistenzialismo, senza una visione di lungo termine che consentisse di modificare il tessuto sociale e soprattutto economico del Sud. In pratica, alle teorie di Rossi Doria, vennero sostituite quelle Keynesiane, secondo le quali, in periodi di crisi, è molto meglio pagare due lavoratori, uno per scavare una buca e l’altro per ricoprirla, piuttosto che mantenere due famiglie nella fame. Quella che Keynes riteneva come una misura di emergenza è stata, per il meridione, un provvedimento di lungo termine, che ha finito per trasformarsi in un boomerang. In definitiva, dunque, la riforma agraria promossa da Fausto Gullo rimane, con tutti suoi limiti, uno dei pochi tentativi di intervento strutturale in una terra da sempre oggetto di provvedimenti a pioggia e assistenzialismo statale.
Massimo Conocchia