Il concetto di solidarietà e le sostanziali differenze tra Nord e Sud
Le differenze tra Nord e Sud sono molteplici, alcune ci connotano in senso negativo, altre, fortunatamente, ci fanno sentire fieri di essere calabresi e meridionali in generale.
Prendendo come punto di riferimento la mitica linea Gustav, la prospettiva appare assai diversa a seconda che guardiamo al di qua o al di là della stessa.
Accanto alle molte connotazioni negative che ci caratterizzano – e che negare sarebbe puerile oltre che inutile – come, ad esempio: le case non finite, i piani affastellati uno sull’altro, costruiti in epoche e con materiali diversi, i centri storici e l’ambiente assai spesso deturpati e violentati. Come non parlare poi dei rifiuti? Automobili, lavatrici, frigoriferi, materassi, divani sparsi per scarpate e boschi. E ancora, l’inefficienza della pubblica amministrazione, un sistema formativo nettamente diverso da un punto di vista parametrico tra il Nord e il Sud, che genera paradossi come le altissime percentuali di diplomati col massimo dei voti, e, parallelamente, i punteggi peggiori, a livello nazionale, nelle prove INVALSI. Tutto questo è sicuramente vero per quanto riguarda la Calabria.
Benedetto Croce, riferendosi a Napoli, scrisse un libro dal titolo: Un paradiso abitato da diavoli. Riteniamo che questa definizione si possa estendere a tutto il Meridione.
Fatta questa necessaria premessa – utile per non cadere in una tronfia e ipocrita autoesaltazione, che troppo spesso ci ha portati, in una sorta di eterno confronto con l’altra parte del Paese, a chiudere gli occhi davanti al negativo e lasciarsi andare in un atteggiamento o di vittimistica rassegnazione o di sterile recriminazione – vorremmo parlare, oggi, di un aspetto, positivo, che ci contraddistingue e ci connota: la straordinaria solidarietà verso gli altri.
Fino a buona parte del Novecento, la solidarietà era un imprimatur stampato nella nostra indole e di cui sicuramente andare fieri. Che si trattasse di eventi belli (matrimoni, nascite, etc) o tristi (malattia, morte, indigenza), si faceva a gara nei rioni a chi riusciva a fare di più e meglio per chi aveva bisogno. In quest’atteggiamento c’era sicuramente una componente religiosa, ma non solo. Era sostanzialmente un tratto distintivo, un modo di essere. Fino al secolo scorso, la solidarietà era estesa al rione, o vicinato. In pratica, il quartiere era vissuto come una grande famiglia, le porte di ogni abitazione erano, perlopiù, aperte. Questa filosofia aveva pro e contro, come si può immaginare. I pro sono intuibili: non si era mai soli e questo era un conforto non indifferente, specie in tempi di ristrettezze e di stenti. Tra i contro c’era sicuramente l’assoluta mancanza di privacy. La riservatezza, persino il privato, venivano spesso sacrificati sull’altare della grande famiglia e del “tutti per uno”. Oggi, il concetto di solidarietà, alle nostre latitudini, si è necessariamente adeguato ai tempi e alle mutate condizioni. Quella moderna è, sostanzialmente, una solidarietà non più estesa al quartiere ma limitata alla famiglia, intesa nell’accezione nostrana di “razza”. In questi nuovi confini, la solidarietà si è persino intensificata e arricchita di nuovi elementi. La riservatezza ha finito per trovare un suo spazio dignitoso e, nel terzo millennio, si è arrivati a un ibrido tra modernità e tradizione, che ha permesso, comunque, di non buttare via l’acqua sporca col bambino.
Chi, come il sottoscritto, vive sospeso tra le due realtà, non può non esaltare questi aspetti, totalmente assenti e disattesi al Nord, sostituiti da un individualismo sfrenato, che impedisce di aprire la porta persino al dirimpettaio (del mio conosco, dopo 21 anni, appena il nome). Questa concezione del vivere, l’assoluta diffidenza verso chiunque, porta a chiudersi e a isolarsi. Non infrequentemente, al di sopra della linea Gustav, gli anziani vengono ritrovati cadaveri in casa, dopo settimane dal decesso.
Non sta a noi esprimere giudizi o preferenze di sorta tra i due modelli. Non possiamo, però, esimerci dall’esprimere profondo rammarico per la scomparsa di quel mondo sopradescritto, fatto non solo di miseria materiale ma di un incredibile capitale di valori umani, in parte rarefatti ai giorni nostri. Di fronte alla scomparsa di un mondo, non bisogna piangere, ma trarre, da parte di chi ci è nato, il maggior numero di memorie. Un mondo può anche cambiare, anzi deve. Un conto è, però, la sua naturale evoluzione, senza abiura della memoria, dei valori del passato, dei princìpi fondanti. E un conto è la negazione, la cancellazione di quel passato. Riteniamo, in definitiva, che compito di chiunque scriva, sia anche quello di tramandare valori e tradizioni, che, una volta tanto, ci contraddistinguono positivamente in un sempre più distante e meno proponibile confronto con l’altra parte del Paese. Prendere coscienza dei nostri limiti, ma anche delle nostre grandezze, è un passo necessario – ma non sufficiente – per cercare di colmare, almeno in parte, il gap.
Massimo Conocchia